I Visual studies sono un’area di ricerca interdisciplinare sviluppatasi sulla scia degli studi culturali anglosassoni, al cui centro vi è l’indagine della visual culture, termine utilizzato per la prima volta da Svetlana Alpers nel 1972 per indicare un approccio all’analisi delle opere d’arte attento non solo alla storia che le precede e le influenza, ma, per l’appunto, anche alla cultura che le circonda (Alpers 1983, 1998). Nell’esaminare la pittura fiamminga, la proposta di Alpers era quella di considerare i suoi capolavori come parte di una più complessiva cultura visuale ad essi contemporanea, entro cui le opere hanno avuto origine. L’attenzione di chi legge e interpreta immagini andava cioè spostata verso la struttura della visione propria di una specifica epoca storica, dai meccanismi che ne regolano lo sguardo ai processi stessi di produzione delle immagini, fino a giungere agli strumenti e alle tecniche su cui tale processo si regge e da cui è favorito (come per esempio il microscopio). Il testo visivo andava dunque interpretato rispetto al modo in cui una cultura non solo si rappresenta visivamente, bensì concepisce la rappresentazione stessa, regolandola, e rendendola così possibile e praticabile. La pittura non è comprensibile esclusivamente rintracciandone e ripercorrendone la singolare e specifica evoluzione, bensì è parte di un contesto più generale, di una mappa entro cui trovano un posto e assumono un ruolo le diverse risorse culturali e le pratiche che sono collegate alla visione e alla sua rappresentazione. Nella cultura visuale un quadro diventa allora un oggetto che circola entro un’economia che nasce dall’articolazione di sistemi di rappresentazione, immagini effettive e soggetti che tali immagini producono e fruiscono. Il quadro diviene un sistema testuale, e, in quanto tale, un oggetto culturale regolato da specifici meccanismi della visione, visione che si pone allora come “un’attività che trasforma il materiale pittorico in pratica significante, entro un processo che non ha mai fine (…) Colui che guarda è innanzitutto un interprete” (Bryson 1983). Parlare di visuale significa dunque abbandonare un’idea positivista della percezione visiva, per riflettere sullo sguardo come pratica di interpretazione, di cui l’immagine (il quadro, la fotografia) è solo una delle molte componenti.

Benché la proposta di Alpers risalga agli anni Settanta, è però solo negli ultimi dieci anni che la cultura visuale ha assunto uno statuto accademico e una legittimità scientifica, sostituendosi in Gran Bretagna, Nord America e Australia non solo ai programmi e ai corsi di storia dell’arte (entro cui si iniziano a contemplare anche il design e l’architettura, un tempo arti minori), ma anche a quelli di storia del cinema e, più in generale, delle discipline delle scienze umane che si occupano di linguaggi visivi propri della cosiddetta cultura alta come di quella bassa, e cioè della cultura di massa (di cui fanno parte anche la televisione, la pubblicità, internet). La cultura visuale è così divenuta un progetto interdisciplinare di analisi e critica dei linguaggi visivi che preferisce a un approccio storicista classico una prospettiva antropologica attenta ai processi culturali in cui qualsiasi tipo di immagine viene prodotta e interpretata, diffusa e trasformata. Le immagini non vanno cioè studiate isolatamente, come oggetti circoscritti, bensì come insiemi di pratiche che ne variano non solo l’uso ma anche il significato, come è oggi, per esempio, il caso della fotografia, medium dalle funzioni molteplici che va considerato rispetto al sistema più vasto delle immagini riprodotte e della loro circolazione (Krauss 1989). Il significato di un’immagine fotografica si lega così alle sue diverse pratiche di fruizione, e queste a sua volta alle istituzioni in cui tali pratiche si consolidano o mutano, come la famiglia, il mondo della stampa e delle riviste, quello della pubblicità, ecc. Per comprendere più a fondo la cultura visuale, la cui ottica, ci si sarà accorti, mantiene alcuni punti in comune con la critica letteraria di stampo neostoricista, è necessario allora, come accennavamo in apertura, collocarli nell’orizzonte più ampio degli studi culturali e della mediologia, con cui si intrecciano e a volte si confondono, in una esplicita e voluta mescolanza dei confini tra le discipline e i metodi di indagine. Si potrebbe quasi affermare che la cultura visuale rappresenta lo sviluppo più recente di un insieme di ricerche che non può ignorare la forza e la centralità che oggi ha assunto la visione, e in particolare i regimi scopici propri della modernità (Jay 1992), per non menzionare l’iperrealtà tipica invece della postmodernità (Baudrillard 1981), in cui non vi è più un reale a cui far risalire l’immagine, ma solo simulacri, quasi si assistesse a una svolta epistemologica visuale, successiva a quella linguistica (Rorty 1967) e a quella culturale (Jameson 1998). Vi sono dunque continuità e sovrapposizioni tra studi culturali, media studies e cultura visuale ma vi è anche una specificità propria di questi ultimi, vale a dire quella di applicarsi a un oggetto di indagine non solo variegato, complesso e differenziato, ma anche estremamente problematico, un oggetto che mantiene, tra l’altro, il doppio statuto di mezzo di comunicazione e di principale accesso al piano simbolico di contenuti culturali sia individuali che collettivi (Jenks 1995). Sin dagli anni Sessanta la mediologia e gli studi culturali si erano peraltro dedicati all’analisi delle rappresentazioni visive della cultura di massa, partendo da alcune analisi semiotiche (Barthes 1964), per poi concentrarsi quasi esclusivamente sulle pratiche di fruizione, per esempio, della televisione, e quindi su una concezione dello spettatore o della categoria di pubblico ferma ad analisi di stampo empirico, ovvero a più sofisticate indagini etnografiche delle forme di ricezione da cui era però esclusa ogni riflessione sull’immagine come testo significante. Fino alla comparsa, ma soprattutto alla circolazione e anche alla rilettura di saggi e ricerche che oggi vengono indentificati come basi teoriche della cultura visuale (si veda oltre il già citato Barthes 1964, anche Barthes 1957, Foucault 1975, Mulvey 1975, Rose 1986, Foster 1988) si era cioè fermi a un’idea ingenua di significato, che si riduceva al contenuto manifesto di un messaggio visivo. In modo analogo a quel che è accaduto, per esempio, nell’ambito della semiotica e della sociosemiotica, in cui si è partiti da modelli e categorie nate dall’analisi del linguaggio verbale, per poi sviluppare metodi e concetti propri invece di una lettura dei linguaggi visivi, la cultura visuale rappresenta anche il risultato di una riflessione sulla teoria e gli strumenti utili alla comprensione e all’interpretazione delle immagini. Fino a che punto un’immagine può allora essere concepita come un linguaggio, ma, soprattutto, nel caso specifico della cultura visuale, in che modo una critica della cultura transdisciplinare può riformulare le relazioni tra potere e sapere individuate da Foucault, aggiungendovi quelle tra vedere e conoscere, e dunque tra sapere, vedere e potere? A tali domande è ovviamente sottesa la questione dell’esportabilità o della traducibilità di strumenti e categorie d’indagine nate nell’analisi testuale della letteratura, o comunque di testi scritti, verso testi pittorici, cinematografici, fotografici, ovvero della necessità di elaborare altri strumenti e altri modelli.

È in questo senso allora che il ruolo dello spettatore e delle pratiche di fruizione e consumo di testi visivi (in cui rientrano i già citati meccanismi dello sguardo, le pratiche di osservazione, ma anche quelle di sorveglianza, oltre alle diverse forme dell’efficacia visiva di un testo, che possono includere effetti patemici e non solo cognitivi, come il piacere, ma anche il disgusto di fronte a un’immagine), diventano questioni importanti tanto quanto quelle legate alle forme di lettura, sebbene non siano esauribili o del tutto comprensibili se ci si attiene a un modello di testualità appiattito sul linguaggio verbale (Evans, Hall 1999). Qual è dunque la specificità di una cultura visuale, come si possono descrivere particolari strutture della visione e dello sguardo ma anche, come si diceva, del desiderio, del voyerismo o dell’eccitazione? Se il punto di partenza è la cultura che circonda tali immagini, come già indicava Alpers, si tratta di individuare le diverse componenti, i diversi elementi che la caratterizzano. Secondo Mitchell una cultura visuale si regge sull’immagine come prodotto in cui si intersecano elementi che riguardano il registro visivo e il suo grado di figuralità o di figurativizzazione del reale (visuality e figurality), altri che appartengono agli apparati e alle istituzioni, altri ancora che investono invece i corpi. Una cultura visuale è perciò il risultato di pratiche diverse che si collocano a livelli differenti sia della produzione testuale, sia della sua interpretazione, da quelli inerenti l’oggetto di indagine e il suo grado di resa del reale, a quelli riguardanti il contesto che circonda le opere, composto dal sistema dei media, ma anche da istituzioni che si pongono sempre di più come relazioni sociali organizzate e globalizzate, a quelle attinenti invece il soggetto che le consuma, insieme al suo corpo (Mitchell 1994).

È in questo senso che, secondo Stuart Hall diviene centrale la nozione di discorso (nuovamente da confrontare con quella elaborata recentemente dalla sociosemiotica), entro cui trovano posto sia il significato delle immagini che si analizzano, sia il loro uso, vale a dire sia i significati che esse assumono a seconda dei contesti (apparati, istituzioni, media) in cui sono prodotte e fruite, ma soprattutto i soggetti che tali significati (tale discorso) costituiscono e da cui sono a loro volta ridefiniti (Evans, Hall 1999). Il significato di un segno visivo non sta quindi solo nell’immagine, né esclusivamente nelle posizioni e nelle identità sociali di cui è composto il pubblico, bensì nell’articolazione tra osservatore e osservato, tra il potere che un’immagine ha di significare qualcosa, e le capacità dell’osservatore di interpretare quel significato. Il passaggio è quello che va dalla comprensione dei significati testuali alla questione della formazione dei soggetti, ed è a questo livello che l’analisi di una cultura visuale diviene anche percorso d’indagine attento alla formazione delle identità e delle differenze culturali, in particolare alle differenze di genere e di etnia, agli stereotipi visivi e alle metafore con cui si rappresenta la marginalità culturale, oggettivandola e rendendola altro da noi. In tale percorso, accanto a categorie di derivazione semiotica, il post-strutturalismo sincretico proprio degli odierni studi culturali pone problematiche tipiche invece di un’indagine psicoanalitica, secondo cui i significati spesso lavorano al di sotto della soglia della coscienza individuale, a livello del simbolico, di cui i linguaggi visivi sono, a differenza di quello verbale, un veicolo privilegiato di espressione (Pontalis 1987). Questa posizione è anche ciò che permette a uno sguardo, questa volta teorico, di de-centrare il soggetto e rendere la sua costituzione un processo sempre aperto ad altri significati e altre riformulazioni. L’articolazione tra osservatore e osservato va così intesa come una relazione che non viene costituita o determinata dall’esterno: il soggetto è parzialmente formato attraverso che cosa e come vede, dal modo in cui il suo campo di visione è costituito. Ciò che viene visto – l’immagine e i suoi significati – è dunque relativo e dipendente dalle posizioni e dagli schemi interpretativi che su di esso gravano. Questo ovviamente significa anche che il soggetto è un’entità incompleta, prodotta attraverso processi che non hanno mai conclusione, processi che sono sia sociali, sia psichici, sia, come si diceva, simbolici.

Il testo visivo è così sempre all’incrocio di più formazioni discorsive. Se si accetta questa proposta, il guardare e il vedere, come l’interpretare, divengono pratiche culturali che presuppongono sia una posizione e un ruolo sociale ove chi legge le immagini è collocato, sia l’interazione e la trasformazione di ciò che si osserva attraverso le proprie competenze, ma anche i propri desideri. È così che la lettura delle immagini diviene essa stessa una pratica culturale. La comprensione di un testo si allarga così al discorso, o meglio al discorsivo, che dovrebbe inoltre condurre a rendere meno nette le distinzioni tra pensiero e azione, tra idea e pratica. I linguaggi visivi contribuiscono a definire discorsi entro cui si costituiscono i soggetti, ed entro cui i soggetti a loro volta negoziano la loro identità; soggetti e non individui, visto che la cultura, in questo caso la cultura visuale, entra in gioco quando gli individui biologici divengono soggetti.

Se però è possibile definire, come abbiamo tentato brevemente di fare, alcuni degli assunti di fondo della cultura visuale, molto più complicato è circoscrivere esempi paradigmatici di tali analisi, per non parlare di un metodo di indagine o un lessico (quando non un metalinguaggio) comune a tutti gli autori che si riconoscono in questa area di ricerca dai confini, è necessario ribadirlo, estremamente imprecisi, la cui ulteriore specificità è dunque proprio quella di riunire paradigmi e assunti teorici a volte anche estremamente differenti, soprattutto operanti a livelli diversi di astrazione e di efficacia non tanto, dunque, del visivo, quanto appunto del visuale, che perciò comprende il contesto sociale, le formazioni ideologiche, i significati simbolici e psichici propri dei simulacri (Baudrillard) di una società dello spettacolo (Debord) ancora tutta da studiare.



Campo di visione, Feticismo, Figurality, Gaze, Glance, Scopofilia, Sguardo sessuato, Società dello spettacolo, Visuality, Voyerismo.



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