In Lettre à un ami japonaise Jacques Derrida dichiara di aver introdotto il termine decostruzione in De la grammatologie (Derrida 1967a) per tradurre ed adattare “le parole heideggeriane Destruktion e Abbau. Tutt’e due significavano in questo contesto un’operazione concernente la struttura o l’architettura tradizionale dei concetti fondatori dell’ontologia e della metafisica occidentale” (Derrida 1987, p. 388).
La decostruzione interroga la tradizione filosofica per comprendere in che modo questa si sia costituita e generalmente imposta come metafisica della presenza, pensiero che pensa l’essere secondo il modello della semplice presenza dell’ente, a sua volta derivata da una determinazione del presente sciolto dal divenire temporale finito.
In questa prospettiva Derrida introduce un neologismo – la differànce – che serve a focalizzare l’attenzione sul carattere dinamico della differenza, irriducibile condizione di possibilità della presenza, dell’identità (Derrida 1972). L’identità non è qualcosa di dato, si determina in relazione ad altro, nel differire da sé. È a partire da questa dinamica differenziale che bisogna pensare le opposizioni determinate (presenti) che costituiscono il campo concettuale della metafisica, e cioè sia come loro condizione di possibilità, sia come ciò che da queste viene rimosso per assumere la configurazione stabile che è possibile osservare. È importante sottolineare che non vi è nulla di arcano in questa concezione della différance, quanto piuttosto una considerazione rigorosa della trattazione della differenza assoluta della scienza della logica hegeliana. Tuttavia Derrida, non segue Hegel lungo il cammino che conduce al sapere assoluto, attraverso la rimozione (Aufhebung) della differenza. Per Derrida la differenza, l’essere altro, condizione dell’identità, è irriducibile. Se la relazione all’altro è condizione dell’essere (presente a) sé, questo non si realizza mai, è sempre differito in altro, è, in quanto differisce da sé, e non risolve mai in sé la possibilità della relazione all’altro, sua condizione.
La scrittura, esempio privilegiato, sempre pensata quale supporto esterno per la rappresentazione e comunicazione di un contenuto che sarebbe già presente nell’intimità del pensiero, è in realtà condizione della sua costituzione. L’inscrizione in una traccia sensibile – la possibilità della scrittura in generale – è ciò che permette l’iterazione del senso al di là dell’hic et nunc della sua presunta semplice presenza nel pensiero, assicurando così la possibilità della significazione. La necessità strutturale e non semplicemente empirica dell’iscrizione in una traccia sensibile delle differenze che costituiscono il senso, è dunque la condizione della presenza del senso, dell’idealità del significato.
In breve: la diffèrance rende conto della procedura della significazione, in quanto rende conto delle condizioni di possibilità della presenza di ciò che è presente: il differire da sé, l’essere altro, quale condizione della presenza, dunque del senso.
Attraverso la decostruzione è possibile osservare che le configurazioni opposizionali (natura/cultura, storia, tecnica; pensiero/scrittura; trascendentale/empirico; infinito/finito ecc.) che costituiscono il campo della metafisica della presenza e la sua storia non sono semplicemente speculari, ma gerarchicamente organizzate: un termine (o un gruppo di termini) prevale sempre sull’altro – l’opposto – per rimuovere, reprimere, occultare, eludere la loro relazione irriducibile, la possibilità stessa di un’elaborazione differente del campo concettuale. Un’elaborazione che tenga conto della relazione all’altro quale condizione irriducibile di ciò che è presente, e che già da sempre turba, sollecita, destabilizza il campo concettuale costituito. La différance infatti, può essere dimenticata o rimossa, ma proprio per questo (proprio perché non può essere semplicemente annullata) non smette di produrre effetti perturbanti sul sistema che si organizza a partire dalla sua rimozione (e sulla pratica che ne dipende; la metafisica della presenza non è una semplice astrazione, ma l’ordine che innerva le isituzioni che governano la nostra vita). La decostruzione dunque è qualcosa che è già da sempre all’opera, indipendentemente dalla volontà di qualcuno, abita come un fantasma l’architettura del pensiero occidentale, “ça se déconstruit” (Derrida 1987, p. 391). Essa dunque non è un metodo. Anche perché, secondo Derrida, il lavoro di chi procede a mettere in rilievo gli effetti di decostruzione non interviene dall’esterno, non applica una regola prodotta altrove rispetto all’architettura-testo che si abita; ne frequenta i luoghi, ne utilizza le risorse, ne sfrutta gli interstizi, ne accentua le fenditure, fino a scorgere i punti di rottura propri di quella struttura e non di altre.
E tuttavia, lo stesso Derrida, ha provato a dare delle indicazioni che potremmo definire di ordine metodologico, parlando di una strategia generale della decostruzione. “Questa dovrebbe evitare di neutralizzare semplicemente le opposizioni binarie della metafisica e insieme di rimanere semplicemente, confermandolo, entro il campo chiuso di quelle opposizioni” (Derrida 1972, p. 52).
Si tratta di mettere in opera un doppio movimento: in primo luogo, una fase di rovesciamento. “Decostruire l’opposizione equivale allora, anzitutto, a rovesciare in un determinato momento la gerarchia” (ib.). Per “marcare lo scarto fra l’inversione che abbassa ciò che sta in alto, decostruendone la genealogia sublimante o idealizzante, e l’irrompente emergenza di un nuovo concetto, concetto di ciò che non si lascia più, né mai si è lasciato, comprendere nel regime anteriore” (p. 53). Derrida chiama questi nuovi concetti gli indecidibili. Essi sono “unità di simulacro, delle false proprietà verbali, nominali o semantiche, che non si lasciano più comprendere nell’opposizione filosofica (binaria) e tuttavia la abitano, le resistono, la disorganizzano, senza però mai costituire un terzo termine, cioè senza mai dar luogo a una soluzione nella forma della dialettica speculativa” (p. 54). Si tratta di termini che, pur essendo relativi ad una struttura di opposizioni binarie, non si lasciano comprendere in essa, anzi la disorganizzano, quando, ad esempio, in una data configurazione è possibile riconoscere loro tanto l’una proprietà quanto l’opposta, oppure né l’una né l’altra. È impossibile riassumere la lista degli indecidibili. La traccia è uno di questi e si rivela utile esempio per comprendere il senso della scrittura per la decostruzione: né presenza, né assenza, presenza di un’assenza, assenza di una presenza, rinvio presente ad un assente. È a partire dalla traccia così intesa che è possibile pensare l’archi-traccia, la necessità di un’iscrizione sensibile, quale condizione di possibilità della presenza del senso. Rovesciando l’opposizione pensiero/scrittura è possibile far emergere l’architraccia quale condizione di possibilità del senso (la confusione entro questa necessità dell’iscrizione e la scrittura empirica ha generato numerosi equivoci, anche, ma non solo, negli studi culturali).
L’opera di Derrida si è ampiamente diffusa negli Stati Uniti fin dagli anni Settanta. Si afferma in quell’ambito noto come post-strutturalismo (e quello contiguo noto come post-modernismo; per quanto Derrida abbia sempre ricusato tali definizioni); in particolare, nei dipartimenti di letteratura, dove la decostruzione è diventata strumento di una teoria della critica letteraria (Yale Critics) più vicina alla critica romantica che a Derrida, in quanto afferma il ruolo creativo dell’interprete nella costruzione di un’opera che sarebbe dello stesso statuto di quella esaminata (Culler 1982, Gasché 1986). Perfino Woody Allen ne ha dato una versione canzonatoria in Deconstructing Harry (1997). La prima influenza della decostruzione negli studi culturali dipende da questa prima diffusione, riletta in chiave sociologica: la valorizzazione della lettura nella costruzione degli oggetti culturali permette di mettere in discussione l’autorità che detiene il monopolio della produzione culturale (le politiche editoriali, il ruolo elitario dell’autore, ecc.), opponendogli il ruolo attivo del lettore (Curtis 1989). Allo stesso tempo, la critica del sapere tradizionale permette l’apertura di nuovi orizzonti per lo studio della cultura. Se per la decostruzione tutto è testo, allora appartengono alla cultura anche quelle forme che la cultura dominante ed elitaria ritiene bassa cultura: il cinema (Brunette, Willis 1989), la televisione, i fumetti, la musica pop, ecc. (Fiske 1989, Poster 1990).
La decostruzione è presente anche nella nuova antropologia (Clifford, Marcus 1986), permette di dubitare della presunta oggettività della descrizione antropologica tradizionale: l’oggetto antropologico è piuttosto un effetto della scrittura dell’antropologo, più o meno consapevolmente manipolato. D’altro canto, si valorizza l’oggetto culturale come testo da interpretare con gli strumenti della decostruzione.
Un discorso a parte, meriterebbe il rapporto della decostruzione con il marxismo e con la politica in generale. Per Laclau e Mouffe la decostruzione interviene criticamente sui rigidi schematismi del marxismo; in particolare, di contro al riferimento tradizionale alla classe proletaria, evidenzia il potenziale alternativo insito in tutta una serie di movimenti, in vista di una politica delle differenze (Laclau, Mouffe 1985). Si tratta di un dibattito ancora aperto, segnato però, dopo Spectres de Marx (Derrida 1993), più da incomprensioni reattive e violente, che non da un confronto serio e proficuo (Sprinker 1999).
Gli sviluppi più recenti evidenziano un ricorso più rigoroso alla decostruzione. Essa, per esempio, si rivela utile per mostrare l’instabilità plurimorfa della nozione di identità, e criticarne l’uso ideologico nelle diverse definizioni dell’identità culturale (Hall 1992, 1996).
Attraverso la decostruzione alcune studiose femministe hanno preso in considerazione la differenza sessuale quale prodotto sociale irriducibile a categorie universali o determinazioni biologiche. In questa prospettiva è possibile riconoscere, al di là della falsa opposizione maschile/femminile, tutta una serie di variabili mobili e significative (Nicholson 1990, Weedon 1997).
Altrettanto interessante è la presenza della decostruzione negli studi (post)-coloniali, in quanto trova applicazione sulle categorie tipiche della cultura coloniale: razza, identità nazionale, subalternità, ibridazione, creolizzazione, ecc. (Bhahba 1994, Young 1990, 2001). Per Bhahba, ad esempio, non è possibile presentare in forma pura né la cultura colonizzatrice né quella colonizzata; l’una non è senza l’altra. Riconoscere la loro ibridazione significa poter dubitare non solo della centralità della cultura colonizzatrice rispetto alla marginalità di quella colonizzata, ma dell’idea stessa di centro come di quella presunta opposta di margine. Ogni cultura appare come spostamento di confini ed in se stessa ibrida.

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http://www.hydra.umn.edu/Derrida
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