La pubblicazione nel 1996 del volume miscellaneo Post-Theory, edito da David Bordwell e Noël Carrol, segnala un cambio di prospettiva nella valutazione cinematografica, soprattutto per quanto concerne l’ambito accademico degli studi sul cinema. Il sottotitolo del libro, Reconstructing Film Studies, mette in evidenza la necessità di ricostruire tale disciplina, posta al confronto con quelle umanistiche, sempre più presente nelle università di tutto il mondo (dal Canada all’Australia, dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Europa all’India, dal Magreb all’Iran, parallelamente all’apparizione o al consolidamento delle industrie cinematografiche nazionali), così come la necessità di distinguere tra una Film Theory in senso generico, ovvero la teoria per antonomasia, da una varietà di accostamenti al cinema, di cui il volume citato voleva essere solo un esempio. Secondo Bordwell, la teoria contemporanea del cinema, entrata ormai in crisi, sarebbe costituita da un amalgama di filosofie dell’epoca o, per meglio dire, da varie correnti di pensiero francesi del periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Il marxismo, il decostruzionismo, lo strutturalismo, la psicanalisi o la semiotica hanno esercitato la loro egemonia sul mondo delle idee e imposto tanto la preoccupazione per le funzioni ideologiche, sociali o psicologiche che disimpegnavano immagini e suono cinematografici, quanto il sospetto intorno alla validità di un procedimento in apparenza illusorio o che, comunque, produce sempre l’illusione di una realtà tridimensionale all’interno delle due dimensioni dello schermo e situa l’opera d’arte più in là della soglia della riproducibilità tecnica. Uno stesso film può essere visto, infatti, contemporaneamente da moltissime persone nelle sale di proiezione di tutto il mondo senza per questo perdere nulla della propria aura e il cinema, nel suo insieme – dall’introduzione del sonoro a quella del colore, dalla trasmissione in diretta della televisione, che è stata in grado di rinnovare lo stile cinematografico convertendolo al principio della conservazione dell’audience, fino all’estremo della creazione di immagini virtuali che, se ci atteniamo a film come Matrix o Las maletas de Tulse Luper, annunciano il futuro o la trasformazione del mezzo –, è capace di rappresentare integralmente la realtà fisica  (Kracauer direbbe perfino di “redimerla”) come nessun’altra arte potrebbe fare. Louis Althusser, Lacan,  Christian Metz, Roland Barthes, Michel Foucault, Gilles Deleuze o Jacques Derrida sono stati, di fatto, i maîtres à penser di un’intransigente politique des auteurs del discorso cinematografico ora interdetto da concetti come interpellanza (utile ad intendere il modo in cui il film obbliga lo spettatore a definire la propria identità), assenza di riconoscimento (degli spettatori nello specchio delle immagini cinematografiche), denotazione e connotazione (o rappresentazione letterale e simbolica degli avvenimenti intesi come segni), immagine-movimento e immagine-tempo (per spiegare la sequenza o l’imminenza della realtà) o scrittura (con riferimento alla riproduzione della realtà attraverso mezzi meccanici), che tentano di spiegare la lotta contro lo scetticismo di una società di massa alla ricerca di un’arte che le sia propria e l’ambizione della teoria che vorrebbe offrire una spiegazione completa dell’autorità e del significato di immagini e di suoni cinematografici (Easthope 1999). Il cinema sarebbe così, l’allegoria dell’opera d’arte globale del tardo capitalismo o, nei termini della cultura visuale, potrebbe offrire elementi sufficienti per una nuova epistemologia della modernità, erede di sistemi testuali di rappresentazione prevalentemente linguistici o letterari.

La progressiva scomposizione della teoria nei suoi referenti filosofici e la sua disseminazione nel campo degli studi culturali, politicamente più esigenti per quanto riguarda l’origine e le possibilità democratiche delle teorie (cinematografiche e non), determina una situazione più favorevole per quello che Carroll ha definito il recupero dei diritti dei Film Studies, sia nei confronti della loro stessa storia – che è lontana dal poter essere scritta in un sol senso –, sia delle specifiche possibilità del cinema in quanto mezzo di comunicazione e  di conoscenza degli spettatori, in parte perché – come suggerisce Michael Walsh a proposito della critica all’estetica globale del marxista Fredric Jameson – “gli studi accademici sul cinema si sono sviluppati come il cuculo, nei nidi delle altre discipline” (Bordwell, Carroll 1996, p. 481) e, sicuramente, in molti altri nidi, fino a fare della versatilità una delle sue caratteristiche più difficili da assumere per i debitori della totalità o della Storia (quella con la S maiuscola): gli studi sul cinema hanno messo in luce fino a che punto, al contrario, i film possono dare all’esperienza umana la forma di una storia (con la s minuscola) da raccontare (vedere e ascoltare). Intolerancia di Griffith o gli ultimi film di Eisenstein costituiscono la prova del fatto che se raccontare una storia – attraverso il mezzo cinematografico – non è poi così semplice, è comunque più produttivo che raccontare la Storia.

Benché la posizione di Bordwell e Carroll sia a sua volta fermamente legata alla tradizione della filosofia analitica, che annovera già opere d’ammirabile rigore e complessità nella sua applicazione al cinema (per esempio, quelle di Currie, Image and mind, 1995, la cui tesi centrale afferma la realtà, non l’illusione, del movimento delle immagini cinematografiche, o Grodal, Moving Pictures, 2000, che difende l’idea che “ciò che vediamo è ciò che abbiamo”, in contrasto con la delusione delle interpretazioni psicanalitica o semiotica), la sua insistenza su di una ricerca corrente e un comportamento teorico complementare (middle-level research, piecemeal theorizing), così come la sua riluttanza a compromettersi con la Grande Teoria, hanno riportato i Film Studies, paradossalmente e sfortunatamente, allo stadio che precedeva la loro inclusione nei programmi accademici. È come se la proliferazione attuale degli studi sul cinema – che include, tra l’altro, prospettive di genere e nazionalità, prospettive cognitive, psicologiche, estetiche, storiche e sociologiche, nessuna delle quali è preponderante, nemmeno quelle che colpiscono lo stesso ruolo del cinema – fosse solo uno dei possibili sviluppi, per quanto sofisticato, del tentativo di dare un senso a ciò che Stanley Cavell ha chiamato “un mondo visto” (Cavell 1979). Seguendo il modello del gusto e della critica comune alle altre arti, la valutazione cinematografica ha potuto, tuttavia, raggiungere relativamente presto livelli superiori di conoscenza (oltre ad una genuina jousissance nel senso di Barthes, o all’ambiguo entertainment che ha offerto il cinema fin dalla prima proiezione nel caffè Aumont), senza per questo considerare imprescindibile l’acquisizione di ciò che potremmo chiamare una competenza cinematografica piena. I film, e non solo nel cinema classico di Hollywood o nel cinema narrativo convenzionale, non hanno bisogno di troppe note tecniche sulla programmazione, lo stazionamento o il movimento della camera, il montaggio, l’illuminazione o la dieresi, per essere accettati o rifiutati dall’immaginazione e compresi dagli spettatori (la realtà, scrive Cavell, “soggiace all’idea che c’è qualcosa di tecnico che sconosciamo e che offrirebbe la chiave dell’esperienza” cinematografica). Si potrebbe quasi dire che una delle ragioni per le quali la teoria ha fallito nel suo tentativo di spiegare il fenomeno cinematografico è data dal fatto che ha sottovalutato sia l’importanza del mezzo nel momento del coinvolgimento dello spettatore, sia la coerenza del mondo visto sullo schermo (in parallelo al “mito della singolarità” che l’espressione cinematografica alimenta), o, in altre parole, per essersi arrogata ciò che corrisponde alla percezione – o, nei termini di Robert Warshow, all’esperienza immediata – di tutto il pubblico.

Questa coerenza, a cui Cavell ha dato un taglio ontologico controverso, si sovrappone, d’altra parte, alla nota descrizione dell’industria culturale come “inganno delle masse” che, per Adorno e Horkheimer, costituirebbe “il significato di tutti i film, indipendentemente dalla trama che la direzione di produzione sceglie di volta in volta” (Adorno, Horkheimer 1947). Quasi tutti gli studi attuali sul cinema di Hollywood – gli American Studies, le teorie femministe, la ripercussione dell’autocensura di Hays Code, lo Star- e lo Studio-System o la nascita del cinema indipendente – possono illuminare la Dialektik der Aufklärung (scritta nell’epoca d’oro del cinema americano) come d’altra parte, hanno fatto generazioni intere di spettatori e di critici (basterebbe leggere The Last Tycoon di Scott Fitzgerald o citare James Agee o ricordare ciò che dice di Casablanca Gena Rowlands in Minnie and Moskowitz di John Cassavetes), oltre a ciò che lo stesso cinema scopre di se stesso. Molti film di Mankiewicz, Bresson, Hitchcock, Bergman, Antonioni o il gruppo Dogma sono già, di per sé, studi sul cinema, scritti (e filmati) in un metalinguaggio poco indulgente. La stessa tipologia dei generi cinematografici – musical, western, melodramma, film noir, arte e saggio – dimostra la resistenza delle strutture mentali al successo commerciale.

Ciò che si può affermare del cinema americano potrebbe dirsi, del resto, anche delle industrie cinematografiche tout court. Gran parte degli studi accademici sul cinema devono la loro reputazione alla fedeltà dimostrata dal pubblico internazionale nei confronti del mezzo espressivo e dalla ricezione dei critici amateurs. Pubblicazioni come Film Quarterly, Wide Angle, Quarterly Review of Film Studies e Cinema Journal negli Stati Uniti, Screen in Inghilterra o Bianco e nero in Italia, per non menzionare la vasta influenza dei Cahiers du Cinéma, il magistero di André Bazin e il prestigio della Nouvelle Vague, nonché la celebrazione di festival come quelli di Venezia, Cannes o Berlino, come pure la nascita all’interno delle istituzioni culturali di archivi e musei cinematografici (ad es. il British Film Institute), rispondono alla richiesta di conoscere, vedere e porre in rilievo l’esistenza di una movie culture praticamente universale, popolare e illuminata.

Questo enfranchisement degli studi sul cinema permette di situare debitamente le aspirazioni teoriche di Bordwell e Carroll all’interno della tradizione del realismo cinematografico e di ricostruire una storia sempre divisa – a partire dalla contrapposizione topica tra Lumière e Méliès – intorno alla fondamentale questione della nascita del cinema dopo la fotografia e alla questione della realtà fisica degli oggetti rappresentati davanti alla camera, o ciò che Bazin chiama “il mito del cinema totale”. Nel linguaggio della scuola, si considera il comportamento del regista e teorico del cinema Sergej M. Ejzenstejn, o quello dello studioso Rudolf Arnheim, contrario al realismo e, per contrasto, formalista o creazionista. Secondo questa tendenza, il cinema – al di là delle implicazioni ideologiche del montaggio o della perdita del suo valore artistico – dipende maggiormente dall’effetto suscitato nello spettatore che dalla selezione ragionata delle immagini e dei suoni. Anche se l’illusione creata non fosse intenzionalmente fraudolenta e non fosse stata ideologicamente orientata, si potrebbe dire che il cinema sovietico o l’espressionismo tedesco avrebbero occultato le cause delle sensazioni e manifestato l’esistenza di un segreto professionale che i seguaci del realismo – da Bazin a Kracauer – considererebbero deleterio per il mezzo, sebbene lo stesso realismo debba far fronte alla principale obiezione lanciata contro la sua tesi. La neutralità della coscienza nel processo di captazione meccanica degli oggetti o il sollevamento – di nuovo secondo le parole di Bazin – dell’ipoteca della libertà di interpretazione dell’artista, renderebbe il cinema un documento più che un’opera d’arte. Il neorealista italiano Rossellini giungerà a vedere, nelle possibilità di trasmissione in diretta della televisione, il culmine del cinema e una sorta di utopia. L’essenza del cinema come erede della fotografia risiede, in effetti, nel captare la realtà del suo referente: né la fotografia, né il cinema possono mentire al riguardo. L’impressione fotografica o cinematografica dimostra esaurientemente l’esistenza degli oggetti esposti davanti alla camera. Il rischio del realismo non deriva, allora, dalla manipolazione degli oggetti filmici, ma dalla negazione del carattere convenzionale o generico del mezzo cinematografico e dall’eliminazione del dramma nel corso degli avvenimenti captati, un rischio di cui Kracauer avrebbe tenuto conto parlando di “redenzione” della realtà fisica, andando oltre la sua riproduzione o rappresentazione. La Teoria del cinema di Kracauer si attiene, di conseguenza, al contenuto o all’estetica materiale delle immagini cinematografiche con il proposito di “scoprire le meraviglie della vita quotidiana”. La redenzione o scoperta della realtà fisica aiuterebbe ad addomesticare “il mondo nel quale realmente viviamo”. Indipendentemente dalla sua iscrizione entro una teoria formalista o realista del cinema, quest’ultimo enunciato si tramuta nel denominatore comune di tutti i giudizi cinematografici – sia dei film di John Ford che di quelli del neorealismo italiano, di Ozu o di Kiarostami –, e nella tesi di fondo dei Film Studies: il cinema ha insegnato agli uomini a vivere sulla terra (nella realtà fisica) come a casa propria.



Cultura visuale, Diegesi, Entertainment, Studi culturali, Film Theory, Fotografia, Illusione, Industria culturale, Media Studies, Politique des auteurs (Authorship), Redenzione della realtà fisica, Riproducibilità tecnica, Star-System, Studio-System.



www.filmstudies.berkeley.edu/

www.absoluteauthority.com/Film_Studies

www.cinematheque.bc.ca/cahiers.html

www.academicinfo.net/film.html

www.bfi.org.uk



Adorno, T. W., Horkheimer M., 1947, Dialektik der Aufklärung, Amsterdam, Querido; trad. it. 1974, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi.

Bazin, A., 1999, ¿Qué es el cine?, Madrid, Rialp.

Cavell, S., 1979, The World Viewed. Reflections on the Ontology of Film, Cambridge Mass.-London, Harward University Press.

Easthope, A., a cura, 1993, Contemporary Film Theory, London-New York, Longmann.

Currie, G., 1995, Image and Mind. Film, Philosophy, and Cognitive Science, Cambridge, Cambridge UP.

Grodal, T., 2000, Moving Pictures. A New Theory of Film Genres, Feelings, and Cognition, Oxford, Oxford UP.

Lastra, A., a cura, 2002,  La filosofía y el cine, Madrid, Editorial Verbum.

Hill, J., a cura, 1998, The Oxford Guide to Film Studies, Oxford, Oxford UP.

Kracauer S., 1996, Teoría del cine. La redención de la realidad física, Barcelona, Paidós.

Pezzella, M., 1996, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino.

Bordwell, D., Carroll, N., 1996, Post-Theory. Reconstructing Film Studies, Madison, University of Wisconsin Press.