Il discorso sulla fotografia nel Novecento si presenta estremamente eterogeneo. Esso si inscrive in differenti ambiti disciplinari, sviluppandosi spesso al loro incrocio: fra teoria e storia dell’arte, sociologia della comunicazione e dei comportamenti di massa, indagine epistemologica e semiologica, cultural studies e visual studies. Di conseguenza anche la forma di questo discorso varia dall’analisi teorica, passando per il saggio o l’articolo da feuilleton, fino al pamphlet e al manifesto. La fotografia, denominata all’inizio dagherrotipia, fu messa a punto, a partire dagli anni Venti del xix secolo, attraverso il fissaggio chimico su supporto di vetro o di carta di un’immagine generata attraverso la camera oscura. Questa tecnica realizzava per la prima volta nella storia il mito dell’acheiropoietos, immagine non generata da mano umana. Il dibattito teorico che senza soluzione di continuità dall’Ottocento prosegue fino ai primi decenni del Novecento aveva conosciuto sovente delle polarizzazioni fra gli ammiratori (E. Zola) della precisione imparziale della macchina e coloro che sdegnati volevano la nuova tecnica asservita all’arte (C. Baudelaire). Walter Benjamin (1892-1940) è il primo che valuta la fotografia nell’intreccio dei cambiamenti sociali e ideologici che caratterizzano la modernità. Nella sua Kleine Geschichte der Fotografie (1931) egli rivolge uno sguardo ammirato ai primordi della fotografia. Le dagherrotipie degli anni Quaranta dell’Ottocento ritraevano gli uomini in un atteggiamento di sicurezza e dignità che derivava loro dal raggiunto status sociale e dal rispetto nei confronti dell’operatore fotografico. La progressiva commercializzazione delle immagini, la decadenza del gusto borghese, la nascita della fotografia amatoriale (Kodak lancia sul mercato nel 1888 la prima macchina di facile uso) distrussero l’aura che emanava dai primi clichés. La perdita dell’aura è diventata però secondo Benjamin, grazie ad alcuni grandi fotografi di inizio secolo, come Eugène Atget (1857-1927), un tema rappresentativo dell’alienazione fra uomo e spazio urbano, anticipando motivi sviluppati in seguito dai surrealisti. La riproducibilità tecnica garantita dalla fotografia rende possibile una ricezione di massa dell’arte e stimola l’elaborazione di categorie estetiche in sintonia con un nuovo ritmo di vita. Dal Futurismo italiano giunge uno dei primi documenti di questa ricerca artistica applicata alla fotografia. Nel 1911 Anton Giulio Bragaglia (1890-1960) pubblica il manifesto del Fotodinamismo futurista: la fotografia doveva lasciarsi alle spalle le riprese statiche che congelano la realtà, essa doveva esprimere la vita quale puro movimento. Bragaglia stesso mette in atto questa rivoluzione attraverso le sue fotodinamiche: una tecnica di ripresa che, tramite un tempo di apertura prolungato dell’otturatore, imprime sulla pellicola le traiettorie di un corpo in movimento. Le fotodinamiche sono per Bragaglia espressioni di un’arte più autentica di qualsiasi rappresentazione realistica in quanto in grado di rappresentare assieme al reale anche il trascendente. Non sorprende dunque che egli praticasse anche sedute di fotografia spiritica, volte a cogliere il fantasma della realtà. La fotografia di Bragaglia risentiva, del resto, del fiorire, caratteristico dei primi decenni del Novecento, di dottrine esoteriche che si proponevano di riconferire alla realtà quell’aura che il progresso tecnico, come aveva rilevato Benjamin, aveva dissolto. Se il Futurismo esaltava il movimento, l’ungherese Laszlo Moholy-Nagy (1895-1946) individuava nella luce la rivoluzione del xx secolo e mirava a farne un mezzo espressivo nell’arte. Nelle sue teorie, influenzate dal costruttivismo e dal Bauhaus, la fotografia rappresenta un passaggio nodale fra passato e futuro: essa forniva soluzioni nuove all’antico problema della luce, al centro dell’arte figurativa occidentale fin dal Rinascimento, e preludeva al linguaggio del cinema che, attraverso il movimento e il sonoro, rendeva possibile una percezione sinestetica della realtà. Un uso creativo della fotografia apriva all’artista inesplorati territori di ricerca. Moholy consiglia e sperimenta lui stesso, ad esempio, inquadrature stranianti che colgono la realtà dal basso o dall’alto, l’uso dei raggi x che penetrano la struttura dell’oggetto, la tecnica del fotogramma cioè dell’impressione diretta dell’impronta degli oggetti su carta fotosensibile senza l’uso della macchina fotografica. La modernità delle riflessioni di Moholy risiede nel suo approccio intermediale alla fotografia anticipando il dibattito contemporaneo degli studi di cultura visuale. La riflessione sulle relazioni fra fotografia e arte ha favorito nel corso del Novecento il diffondersi di una considerazione della fotografia, vista non più come semplice tecnica di riproduzione della realtà, ma sempre più come mezzo di produzione estetica. Una concezione di segno opposto alla fotografia artistica si affermò in America fra gli anni Dieci e Quaranta negli ambienti culturali newyorkesi, in particolare attorno alla figura del fotografoAlfred Stieglitz (1864-1946) e al teorico Paul Strand (1890-1976). Il realismo fotografico americano esalta il fotografo-operatore che fa un uso franco e diretto (straight) della tecnica: la fotografia non deve mirare a modificare la realtà o addiritturaa costruirne una nuova, deve semplicemente documentarla. Alla base di quest’esaltazione della referenza pura vi è la fiducia, tipica del pragmatismo americano, in una realtà che si rivela conoscibile attraverso l’osservazione e rappresentabile attraverso una macchina amica dell’uomo. Il realismo fotografico americano contribuì alla nascita del fotogiornalismo (nel 1936 esce il primo numero del settimanale Life) e con esso del mito del fotoreporter, pronto a catturare i fatti nel luogo e nel momento stesso in cui avvengono. Si tratta di una svolta epocale: l’affermarsi nella mentalità collettiva di un nesso immediato fra fotografia e credibilità dell’informazione. Il progressivo inserimento della fotografia nel sistema della comunicazione di massa costituisce un dato imprescindibile per ogni approccio critico alla fotografia a partire dal secondo dopoguerra. In tale contesto si possono individuare, con buona dose di approssimazione, tre tendenze fondamentali. Fotografia e mass-media. Numerose analisi critiche si concentrano sulla fotografia quale artefice, assieme agli altri media, di una ridefinizione della percezione collettiva della realtà. Una riflessione critica che si appunta contro l’obiettività fotografica decantata dai giornali fu formulata, già nel 1927, da Siegfried Kracauer (1889-1966). Egli collega il fenomeno quantitativo della marea di immagini dei media a un’analisi qualitativa della percezione fotografica. La fotografia che offre all’osservatore la totalità spaziale di una scena è strettamente dipendente dal momento in cui viene effettuata la ripresa. Venendo meno quella totalità diminuisce il valore segnico della fotografia; ne consegue che, quanto più lungo è il tempo trascorso fra il passato dello scatto e il presente dell’osservazione, tanto più difficile risulta la lettura della fotografia. In questo modo viene sminuito il mito giornalistico dell’attualità della fotografia che ormai si riduce a immagine opaca. Al contrario le immagini dell’arte e perfino le immagini volatili della memoria comunicano in virtù della propria trasparenza: esse possono essere penetrate dalla critica e mediare una vera conoscenza della realtà (Erkenntnis). Paradossalmente nessun’epoca conosce così poco se stessa come la presente che crede di rispecchiarsi nelle immagini della stampa. Non è lecito del resto idealizzare la fotografia, prodotto della società capitalistica alienata dalla falsa coscienza. In conclusione Kracauer disegna l’inquietante scenario di un mondo tutto in superficie, prigioniero in una dimensione d’eterno presente: una crosta patinata di fotografie di dive, politici, sportivi impedisce qualsiasi scavo da parte della coscienza storica. Lo scetticismo mediatico di Kracauer, nutrito di materialismostorico e di storicismo diltheyano, anticipa di alcuni decenni le analisi di una critica della cultura (cfr. M. McLuhan) che agita lo spettro di un mondo irreale, costituito soltanto da immagini. Una linea di continuità si riscontra, inoltre, fra Kracauer e l’analisi dei miti del quotidiano compiuta da Roland Barthes (1915-1980), nella prima fase della sua opera, in Mythologies (1957). Il metodo del primo Barthes è informato, infatti, da una concezione marxista dell’ideologia concepita come contraffazione della realtà storica; egli mutua però la sua strumentazione critica dalla linguistica strutturale di Ferdinand De Saussure. La fotografia non è ancora analizzata da Barthes come un linguaggio dotato di valori comunicativi propri: essa è ritenuta un potente strumento al servizio di usi sociali (stampa, pubblicità, propaganda politica, mostre, ecc.) che la fanno portatrice di un’ideologia di potere. L’analisi della fotografia di Barthes in Mythologies s’incentra sulla manipolazione sempre più raffinata del messaggio iconico da parte dei canali della comunicazione di massa. Questo approccio sarà alla base delle indagini più propriamente semiotiche degli anni Sessanta nelle quali Barthes affiancherà all’analisi dalle tecniche e delle strategie di emissione lo studio della ricezione del messaggio fotografico. La brillante critica iconoclastica di questo libro rimarrà un punto di riferimento per le analisi strutturali successive dei miti della cultura di massa (cfr. U. Eco). Ad una critica della cultura che si concentra sulle trasformazioni antropologiche determinate dalla comunicazione di massa si ricollega Susan Sontag (n. 1933) nel suo On photography (1977). Per Sontag la constatazione di un mondo d’immagini che si sostituisce al mondo reale è riconducibile ad una profonda trasformazione, tipica della modernità, dell’idea di realtà. Non è più valido il disprezzo platonico dell’immagine quale analogo imperfetto della realtà: gli uomini contemporanei attribuiscono alle immagini un carattere di veridicità di grado non inferiore alla realtà che esse rappresentano. Il consenso di cui gode la fotografia è riconducibile, dunque, alla generale attendibilità attribuita alle informazioni trasmesse dalle immagini fotografiche: esse sono custodite oggi in innumerevoli dossiers (cartelle cliniche, archivi di biblioteche, schedari della polizia, ecc.) che fanno della fotografia un efficace strumento di controllo da parte del potere. Esiste inoltre, secondo Sontag, un lato oscuro della fotografia: un’attrazione magica che è un residuo di irrazionalità primitiva, sopravvissuto alla secolarizzazione. La magia della fotografia è riscontrabile soprattutto nei comportamenti privati: ad es. la venerazione feticista di foto di personaggi famosi, l’identificazione sacrale fra ritratto e persona amata, la diffidenza di alcune popolazioni nei confronti della macchina fotografica, rea di derubare, assieme all’immagine, l’anima. Un carattere irrazionale è individuato nella fotografia anche dal filosofo e studioso della comunicazione Vilèm Flusser (1920-1991) nel suo Für eine Philosophie der Fotografie (1983). La magia della fotografia è tuttavia inquadrata da Flusser all’interno della dialettica fra immagine e scrittura che percorre l’intera storia della civiltà. L’invenzione della scrittura rappresentò l’inizio della storia poiché segnò la nascita del pensiero concettuale attraverso la linearizzazione delle immagini tradizionali. L’avvento della fotografia si colloca, invece, precisamente alla fine della storia. Le immagini tecniche si rivolgono contro la testolatria della società ottocentesche instaurando un’idolatria diversa da quella che caratterizzava le società preistoriche. L’idolatria nella nostra società postistorica e postindustriale consiste nell’incapacità di decifrare le immagini che ci scorrono quotidianamente davanti agli occhi e di cogliere il senso stesso dell’atto fotografico. L’azione caratteristica del fotografo è il gioco: benchè la scelta dei suoi soggetti sia libera, egli deve attenersi alle regole di un gioco che conosce solo in modo parziale, vale a dire il programma di funzionamento della macchina fotografica (Apparat). Il programma della macchina è inserito, a sua volta, in programmi più grandi, gradualmente più complessi (metaprogrammi): produzione, distribuzione, comunicazione, consumo, ecc. Una filosofia della fotografia rappresenta per Flusser un atto indispensabile di presa di coscienza contro la delega della capacità critica agli apparecchi simulatori di pensiero che riducono l’uomo a funzionario ogiocatore. La macchina fotografica rappresenta dunque il prototipo di ogni altro apparecchio subentrato successivamente: un prodotto del pensiero calcolatore riversatosi nell’hardware della materia. Fotografia e sociologia. La diffusione di massa della fotografia amatoriale ne ha fatto l’oggetto di numerose analisi sociologiche. Nella prima metà degli anni Sessanta un gruppo di ricerca coordinato da Pierre Bourdieu (n. 1930) ha studiato gli usi sociali della fotografia. Bourdieu si concentra sulle motivazioni e funzioni di cui la pratica fotografica è investita presso differenti classi e gruppi sociali. Il campo del fotografabile, ad esempio, è strettamente dipendente dal contesto sociale: un uso rurale-provinciale della fotografia ritiene degni di essere immortalati solo eventi eccezionali dell’esistenza (matrimoni, comunioni, vacanze, ecc.), mentre un uso piccolo borghese ritiene interessante anche il fatto curioso o quotidiano riversandovi un desiderio di autopromozione culturale. Il metodo di Bourdieu fadunque della fotografia un indicatore attendibile delle costruzioni della realtà. Quest’acquisizione è rilevante anche dal punto di vista dell’ontologia del medium. Essa dimostra su base empirica che la fotografia non riproduce il reale, ma produce esclusivamente rappresentazioni simboliche. Le scoperte che riserva la pratica fotografica amatoriale hanno incoraggiato studi sociologici sulla fotografia in ogni parte del mondo. Il lavoro di un sociologo americano (Boorstin 1964) ha condotto, ad esempio, alla formulazione del concetto di pseudoevento: la simulazione di un evento di fronte all’obiettivo dura solo il tempo della ripresa e rivela una partecipazione sociale (ad es. un bambino mostra in una posa improbabile, suggerita dai genitori, l’uso di un nuovo elettrodomestico; un corteo si forma appositamente per essere fotografato). Un’esauriente valutazione complessiva dei regimi percettivi instaurati dalle immagini analogiche (fotografia, cinema, televisione) è stata fornita in tempi recenti(1997) dal sociologo Pierre Sorlin. Egli dimostra che, a partire dall’invenzione della fotografia l’uomo ha l’impressione di vivere in un mondo in cui accadano più fatti; in realtà nella maggior parte dei casi i fatti hanno luogo solo per essere ripresi dagli obiettivi. Linea ontologico-semiotica. L’indagine ontologica sulla fotografia è spesso legata ad un’indagine semiotica. Le risposte alla domanda che cos’è la fotografia sembrano impensabili al di fuori del conferimento alla scrittura della luce dello statuto di un sistema di significazione. André Bazin individua in Ontologie de l’image photographique (1945) nell’obiettività la qualità principale della fotografia. La fotografia aderisce perfettamente al referente tanto da coincidere con esso: il procedimento tecnico permette alla natura stessa di esprimersi senza implicare alcuna interpretazione estetica. L’affermazione di Bazin dell’obiettività fotografica, apparentemente non nuova, ha conseguenze rilevanti dal punto di vista teorico: da un lato la fotografia libera l’arte figurativa dal problema della verosimiglianza (fenomeno constatabile nel xx sec.) dall’altro lato si nega alla fotografia ogni carattere di linguaggio. Il problema del linguaggio è affrontato anche da Roland Barthes a partire dagli anni Sessanta. In due studi apparsi su Communications, Le message photographique (1961) e Rhétorique de l’image (1964), Barthes tiene conto della trasparenza del mezzo fotografico messa in rilievo da Bazin. La fotografia non può prescindere dalla realtà che rappresenta (denotazione). Nonostante questo rimando tautologico al referente, anche la fotografia, alla pari di ogni altro linguaggio, possiede uno stile e una retorica che permette all’immagine di essere decifrata (connotazione). Il paradosso fotografico consiste per Barthes dunque nello scaturire di un atto d’interpretazione all’assenza di un codice: ciò inserisce la fotografia nel sistema della cultura. Barthes, pur rilevando il carattere non linguistico del messaggio fotografico, sceglie significativamente per le sue analisi due generi di immagini integrate nel mondo della comunicazione: la foto giornalistica e la foto pubblicitaria. Ciò suggerisce l’intenzione di ricondurre anche la fotografia all’archetipo epistemologico del sistema verbale. Egli, infatti, esaminando i meccanismi di percezione dell’immagine fotografica, si chiede se esistano delle fotografie neutre, refrattarie a qualsiasi tipo di lettura: egli propende a credere che ogni osservazione della fotografia implichi nel soggetto una verbalizzazione, se pur solo mentale, di ciò che vede. La profonda revisione di convinzioni estetiche ed epistemologiche a cui, dalla fine degli anni Sessanta, Barthes sottopone il suo pensiero, si ripercuote evidentemente sulla sua riflessione sulla fotografia. Rifiutando una prospettiva logocentrica, l’ultimo Barthes individua nel corpo il centro della conoscenza e nel piacere il principio euristico fondamentale. Per questo perde gradualmente d’importanza il problema del linguaggio delle immagini: ora sono le aporie della fotografia ad affascinarlo. Ne La chambre claire (1980) Barthes riconsidera la questione ontologica non più con metodo semiotico ma attuando una commistione fra analisi fenomenologica e suggestioni della psicanalisi lacaniana. La sua analisi parte da un corpus di immagini messo insieme secondo il suo gusto. Egli classifica le sue reazioni di spectator secondo due categorie che denomina studium e punctum. Lo studium è l’interesse umano risvegliato dalla contemplazione della maggior parte delle fotografie: una curiosità soddisfatta da una serie d’informazioni che solo la precisione dell’immagine analogica può fornire. Il punctum è invece una puntura inferta solo da alcune immagini: esso consiste in un dettaglio che spiazza l’osservatore senza che egli possa spiegarne facilmente il motivo. Nella seconda parte del saggio si assiste ad un mutamento di prospettiva. Barthes insegue la fotografia della madre che la rappresenti nel modo più autentico: egli ricerca, deduttivamente, l’unicità dell’immagine che ha in mente nella molteplicità delle immagini fotografiche. Avendo ritrovato finalmente la madre in una foto che la ritrae da bambina in un giardino d’inverno, Barthes induce da quest’immagine vera il noema di ogni immagine fotografica. Il carattere essenziale della fotografia è individuato nella forza di certificazione del passato: ciò che si vede si è trovato realmente davanti all’obiettivo (ça a été). La fotografia spinge l’osservatore a meditare sul tempo: essa non gli restituisce il tempoperduto, ma restituisce lui stesso al fluire del tempo. Questa consapevolezza, non inscrivibile in un sistema di sapere, arricchisce ogni volta di uno stupore magico l’atto della contemplazione. Nell’ultimo Barthes dunque la fotografia nonè tanto oggetto di studio, quanto piuttosto testo inteso, alla maniera poststruttalista, quale spazio di libera interazione fra referente e soggetto. Nell’importanza conferita alla complessità dell’osservazione è riassumibile il contributo dato da Barthes allo sviluppo della teoria della fotografia. Nella teoria della fotografia successiva a La chambre claire i concetti di referenza e processo assumono una particolare rilevanza. Il carattere referenziale della fotografia viene sempre più relativizzato e separato dal problema del realismo della rappresentazione. Per alcuni studiosi, vedi Jean Baudrillard (n. 1929), l’interesse della fotografia non va ricercato nel mostrarsi del referente, ma nel negarsi della sua vera essenza allo sguardo dell’osservatore, il quale può percepire solo tracce della sua alterità. Per altri, come Massimo Cacciari (n. 1944), questa discrepanza fra immagine e realtà è considerata come consustanziale alla fotografia, la quale diventa emblema inquietante della società della crisi, prigioniera di untempo frammentato in momenti non relazionati fra loro – gli scatti – e lontana da ogni esperienza dell’Essere. Per Philippe Dubois, che si rifà alla teoria dei segni di Charles S. Peirce (1839-1914), la fotografia appartiene alla categoria degli indici: i segni uniti al proprio referente tramite un rapporto di contiguità fisica (come le impronte e i segnali di fumo). Questo statuto indiziale rinvia necessariamente la fotografia ad una situazione di enunciazione: il senso del referente fotografico è realmente comprensibile solo se visto come preceduto e seguito da atti culturali. La semantica della fotografia coincide dunque con la sua pragmatica. Ripensare la fotografia inserendola nel suo carattere di processo: questa tendenza del discorso sulla fotografia più recente mira a superare quel potenziale impasse teorico rappresentato dal punctum barthesiano. Dallo stupore afasico provocato dall’unicità del referente si passa a una distensione o espansione del punctum in una dimensione di durata (Derrida 1990) che comprende le tecniche di produzione, diffusione, archiviazione dell’immagine. L’avvento della tecnica digitale ha rivoluzionato il mondo della fotografia ed è gravida di conseguenze anche dal punto di vista teorico. Le nuove immagini informatiche presentano qualità nuove: esse non presuppongono necessariamente la realtà del referente, sono facilmente modificabili, cancellabili e velocemente trasmissibili a media differenti, non sono più legate a supporti materiali come la pellicola o la carta. Le categorie della ricerca ontologica, modellate sulla vecchia tecnica analogica, non sembrerebbero dunque più valide per la nuova. Proprio oggi, tuttavia, il dibattito teorico sulla fotografia si presenta particolarmente vivace forse perché stimolato da una logica contrastiva: da un lato la tecnica digitale fa apparire più nitidi i tratti ontologici della tecnica analogica; dall’altro lato una comprensione reale del digitale non può non inserirsi nell’intera storia delle immagini analogiche. Nuovi interrogativi, come quelli posti da una realtà virtuale dimidiata dal proprio referente, sembrano conferire alla teoria della fotografia un’urgenza esistenziale e indicare alla ricerca nuovi percorsi. Apparat, Aura, Avanguardie, Ça a été, Crisi, Connotazione/Denotazione, Dagherrotipia, Digitale, Fotodinamismo, Fotogiornalismo, Fotografia amatoriale, Gioco, Iconoclastia, Idolatria, Indice, Luce, Magia, Mito, Mondo di immagini, Movimento, Neutro, Opacità, Paradosso, Pragmatica, Pratica sociale, Processo, Programma, Pseudoevento, Punctum/Studium, Realismo, Referente, Referenza, Regimi percettivi, Semiotica, Straight Photography, Traccia, Trasparenza, Verbalizzazione. www.masters-of-photography.com Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. 1974, Miti d’oggi, Torino, Einaudi. Barthes, R., 1961, Le message photographique, <<Communications>>, n.1; trad. it. 1985, Il messaggio fotgrafico, in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi. Barthes, R., 1964, Rhétorique de l’image, <<Communications>>, n 4; trad. it. 1985, Retorica dell’immagine, in L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi. 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