Mentre gli sforzi dell’intelligenza umana s’indirizzavano verso una sempre maggiore concettualizzazione del reale, permaneva la tendenza a considerare la metafora un quantité négligeable. La più potente formulazione di questa visione fu offerta, probabilmente, da Wittgenstein nel suo Tractatus Logicus-Philosophicus, in cui la verità d’una proposizione è definita dalla sua capacità di descrivere un fatto. Il fatto viene a sua volta definito come uno stato di cose proprio del mondo. All’interno di questa rappresentazione continua dei fatti del mondo, si annida il silenzio che contiene sia l’inquietudine dell’io che quella del mondo. La pittura invece, secondo Wittgenstein, eliminava per sempre la metafora. La verità non era altro perciò che la struttura logica dello stato delle cose e delle proposizioni. Non esisteva differenza rilevante tra queste due entità isometriche. L’una faceva riferimento all’altra senza bisogno d’andare oltre la sua relazione. Alla fine, il mondo, cioè la parte compresa entro i nostri limiti, la serie di cose ed i suoi stati, erano trasparenti per il linguaggio. La parte del linguaggio compressa entro questa forma logica costituiva di fatto tutto il linguaggio. La caratteristica saliente di Wittgestein risiede nella radicale forma d’ascesi che la sua filosofia proponeva e, come in tutte le formulazioni ascetiche, il silenzio era il metodo radicale per giungere alla serenità. Solo Wittgestein propose questa forma di misticismo dell’accettazione del mondo nel suo stato, in una forma compatibile al positivismo logico. Tale grado di perfezione e di rinuncia, di purezza e d’auto-limitazione erano indubbiamente disumani, eccetto che per il suo carismatico fondatore. Nemmeno il positivismo dello stesso Wittgestein, però, riuscì a mantenerlo a lungo in atto. Il filosofo viennese non era ancora morto quando Max Black cominciò a scagliare le prime invettive contro la proibizione di usare la metafora. Va detto però che nella parte principale del suo articolo del 1954 egli ribadiva che chiunque usasse una metafora era consapevole di poter sempre sostituire i termini impiegati metaforicamente con quelli specifici. Nel caso in cui ciò a cui si fa riferimento in senso metaforico non abbia un nome specifico, possiamo invocare la catacresi, ovvero possiamo migliorare il nostro vocabolario. Per quanto Black riconoscesse certi vantaggi nell’uso della metafora entro il linguaggio quotidiano, soprattutto allo scopo di generare strategie che alimentassero la curiosità scientifica, la vecchia tendenza ascetica rimaneva dominante. Le metafore aspiravano soprattutto a decorare e appartenevano alla pragmatica più che alla semantica. Uno stile misurato e rigoroso non avrebbe dovuto usarle. Meno che mai in filosofia (Black 1962). Nel suo meritevole sforzo di vincolare la tradizione analitica alla tradizione più continentale della filosofia, Paul Ricoeur prese in considerazione il contributo iniziale di Black. In tal senso fu determinante l’assunzione della dimensione pragmatica della metafora. Per Ricoeur non è possibile che le parole operino in senso metaforico senza un opportuno e determinato contesto. Allo stesso tempo, identificando la pragmatica con il discorso (Rede, Discours), egli afferma il carattere événementielle della metafora, vincolandola cosi al concetto di Ereignis, centrale in Heidegger. La metafora è l’avvenimento che crea il significato o come ha detto Monroe Beardsley, un’opera vera “in miniatura”. Tutta la concezione di Ricoeur è dominata dalla dimensione creativo-poetica della metafora. Su questo si basa, infatti, l’obiezione a Black e Beardsley (Beardsley 1958). Entrambi avevano cercato di disciplinare le potenzialità sovversive della metafora codificando la gamma delle sue variazioni. Si parlò quindi di una sorta di delitto linguistico, di una scala di connotazione potenziale, qualcosa di simile ad un elenco di significati secondari comuni alle parole. Il linguaggio non è solamente l’insieme di proposizioni ma anche l’insieme di metafore. Era evidente che entrambi parlavano di metafore già morte, registrate nei dizionari, dimostrando, in fondo, la loro ostilità nei loro confronti. Al contrario Ricoeur affermò sempre la dimensione creativa della metafora, necessaria prosecuzione della sua dimensione pragmatica: la metafora ha un significato sempre nuovo, se posta entro un evento discorsivo nuovo. Seguendo John Austin Ricoeur affermava che la metafora aveva sempre una dimensione locutoria, non si limitava ad un “dire” ma presupponeva anche un “fare”. Inoltre, sebbene affermasse che la metafora non aveva senso e significato, come sosteneva la filosofia analitica, Ricoeur non voleva attenersi ai procedimenti d’analisi e verifica tesi a trasformare la metafora in un’espressione linguistica normale. Egli chiamava senso, non il contenuto grammaticale di una proposizione, ma l’“imminente proposito del discorso”. La sua definizione coincideva con la spiegazione della metafora, e per questo, non si poteva soltanto assumere che fosse preferibile aumentare il senso delle parole e cadere nell’assurdo logico, come voleva Beardsley. Il nuovo e creativo statuto della metafora non si lasciava ridurre a nulla che fosse anteriore, né per connotazione né per definizione. Si trattava di un’innovazione semantica. Il processo d’esplicazione del suo significato doveva offrire una via d’accesso a questo processo di creazione. Ciò che caratterizza, tuttavia, la posizione di Ricoeur risiede nel fatto che tutte le procedure possibili per spiegare il senso della metafora dipendono dalla nostra effettiva comprensione di ciò a cui essa si riferisce. Ricoeur infatti afferma che l’ascoltatore o il lettore sono costretti a ricreare il significato all’interno della struttura del significato stesso. Questa costruzione non ha regole. Per questa costruzione possediamo soltanto indicazioni che al massimo ci guidano attraverso permessi e divieti. Tutto ciò genera un significato verosimile, invece che vero. La costruzione più verosimile sarebbe quella in grado di generare l’ambito più integrato e concordante degli aspetti considerati. Questo, però, significherebbe che è a mala pena possibile portare alla luce, dal punto di vista della sua ricezione, il mondo che alita nella metafora come creazione. Ricoeur ha affermato che quel mondo costituisce la referenza della metafora, il cui significato, “lo scopo comunicativo”, può spiegarsi solo a partire dalla sua referenza, il suo mondo, o da qualcuno dei suoi aspetti. Entrambi, senso e referenza, costituiscono l’unico scopo della comprensione. Questa operazione si attualizza nella “dinamica, ovvero nell’azione del procedere da quello che si dice a quello di cui si è detto qualcosa”. Per fortuna, l’aspetto del mondo non è celato dalla metafora, ma è rivelato da quella. Pertanto la metafora è sempre qualcosa d’estraneo, ma possiede un’estraneità che possiamo fare nostra nella misura in cui scopriamo l’orizzonte del mondo che essa ci rivela. Appropriandoci della metafora, scopriamo nuovi modi d’essere o nuove forme di vita (ancora una volta, Heidegger e il secondo Wittgenstein, insieme). La capacità sincretica di Ricoeur è notevole. Su questo corpus di concetti egli è riuscito a proiettare il mondo d’Aristotele. In quest’alveo Ricoeur ha ricondotto a sua volta l’ambiente del romanticismo. La metafora è soltanto una finestra su un mondo possibile, cosi come per Aristotele era una parte di una tragedia. Il paragone fra tragedia e mondo risulta quindi più facile. Il concetto di mimesi d’Aristotele fa il resto. Questa mimesi non è, però, mera imitazione, ma a sua volta poiesis, e i suoi elementi sono, pertanto, sempre metaforici. Il tutto - l’opera, il mondo o il contesto - rappresenta sempre il determinante della metafora, della sua forza. Così si arriva alla tesi centrale: “La spiegazione della metafora, come successo localizzato all’interno del testo, contribuisce all’effettiva interpretazione dell’opera come un tutto”. La stessa cosa si potrebbe dire del suo contrario. I mondi possibili, la possibilità d’immaginarli, quello che il romanticismo definì la forza creativa comune alla natura e al genio, è quello che si attualizza in ogni momento creativo del linguaggio, che a sua volta rivela il mondo e i suoi componenti. Quando ricordiamo la frase del Tractatus, “Il mondo è quel che è” scopriamo in Wittgestein una posizione distante dal romanticismo. Egli era infatti un filosofo dall’atteggiamento estatico e contemplativo, veramente platonico, che non si lasciava trasportare dalle ali della metafora. Per questo la nozione di mondo possibile non ha senso nel Tractatus, cosi come non lo ha la nozione di metafora. Il tipo di perfezione inumana proposta da Wittgestein era stato, in realtà, già da tempo contestato. Nessuna filosofia aveva lottato tanto come quella di Kant per delimitare ciò che è possibile concettualizzare. Kant aveva mostrato anche l’ineludibile fascino che ha per l’uomo l’irraggiungibile. Alla radicale ostilità nei confronti del fattuale e dell’irraggiungibile è riservata infatti una possibilità particolare: fra i limiti del concetto si trova l’idea. Il modo in cui l’uomo si avvicina all’idea, di per sé veramente irraggiungibile, è attraverso il simbolo. Il terreno filosofico del simbolo è diverso da quello della mera possibilità logica e della mera fattualità. Il simbolo è la necessaria presenza sensibile di un’idea possibile. Kant identificò l’impossibilità d’eliminare l’attitudine antropologica nei confronti della metafisica, prevedendo forse che la separazione dall’irraggiungibile si potesse pagare solo al costo immenso della noia. Questo era un prezzo che un uomo moderno, come Faust, non avrebbe potuto pagare. Kant interpretò quindi i limiti del mondo non per istaurare il silenzio, come Wittgestein, ma per inaugurare un altro modo di parlare dell’incomprensibile, il modo simbolico, il modo metaforico. Là dove nasceva veramente il mistero, il limite della logica, doveva sorgere il linguaggio della metafora, per ridurre l’ineffabile, una delle forme del non-conoscibile. Aldilà di tutti i tecnicismi del kantismo, che rendono la cosa in sé incomprensibile, ciò che viene considerato veramente misterioso dal criticismo kantiano è sempre stato l’individuo e insieme a lui la sua esistenza. Quest’individuo, questa unità, sia essa un semplice oggetto o un essere umano può rappresentare il mondo. Per questo l’unico approdo dell’individuo fu l’estetica che per questo si trovava molto aldilà della conoscenza teorica. In un certo senso, il neokantiano Cohen aggiunse che per portare a termine un’opera sugli individui, era necessario condividere “l’ingenuità storica che ci vincolava di nuovo al mito” (Cohen 1922, p. 34 ss.). Questo passaggio ebbe un lettore molto attento, direi, in Ortega y Gasset. Al ritorno dal suo viaggio in Germania, dove aveva studiato insieme a Cohen, si concentrò sulla tesi che sostiene che la vita è l’individuale. Inoltre, quel mondo dell’individualizzazione era per Ortega il mondo proprio dell’arte. Per Ortega: “arte è individualizzazione. Le cose, res, sono individui”. L’arte così tentava di appropriarsi del mistero dell’individualità. Questi erano i limiti di tali concetti. Sicché, quando Ortega volle costruire un’estetica su queste basi, non ebbe altra scelta che quella di costruire una teoria della metafora, attualizzando quella relativa al simbolo, che ogni criticismo necessita per attingere in qualche forma all’irraggiungibile. A tale scopo bisognava creare un “io” per ciascuno degli oggetti individuali dell’arte. Questa era la metafora costitutiva dell’arte, quella che determinava l’esistenza stessa dell’arte. Attraverso questa metafora si aspirava a “vedere le case dall’interno”. “Tutto, se guardato dal suo interno, rappresenta l’Io”. Da un punto di vista logico questo è naturalmente impossibile, perché ogni cosa ha la propria positività esistenziale. L’esistenza in quanto tale, non è un fenomeno, ma la base di tutti i suoi fenomeni. L’arte, tuttavia vuole penetrare la sua esistenza, rivelare il mistero della sua intimità. In uno scritto occasionale, com’è l’intera opera d’Ortega, destinato in questo caso a fare da prologo ad un libro di un poeta spagnolo, Ortega introdusse un’epigrafe dedicata alla metafora. Secondo Ortega tutto quello che conosciamo delle cose secondo la scienza è un muro che impedisce di catturare la loro individualità. È necessario, pertanto, identificare l’oggetto estetico come ciò che, creato in seno all’arte, rende palese l’intimità dell’oggetto, la sua stessa esistenza, il suo “io” vitale. Senza dubbio oggetto dell’arte non era l’oggetto stesso reale, individuale. Si trattava di un oggetto estetico, diverso dal reale, ma ugualmente individuale ed esistente. Il piacere fondamentale dell’arte è dato dal fatto che l’oggetto estetico sembra offrirci l’intimità esistenziale di un essere reale. Ortega afferma: “sembra come se attraverso l’oggetto estetico ci arrivasse la cognizione dell’esistenza stessa delle cose dall’interno. La relazione grazie alla quale l’oggetto estetico acquisisce una certa dimensione ontologica è la metafora. Quell’oggetto che si rende trasparente, l’oggetto estetico, trova la sua forma elementare nella metafora. Io affermerei, che oggetto estetico e oggetto metaforico sono una sola cosa, o piuttosto, che la metafora è l’oggetto estetico elementare, la cellula bella”. Ortega, che conosceva gli sforzi dell’ontologia più recente, fa dell’oggetto estetico il regno dell’essere. Per accedervi era necessario eliminare il regno fisico degli esseri. Quell’eliminazione, e la sua nuova creazione, costituisce la metafora: “La metafora è un procedimento e un risultato, una forma d’attività mentale; è l’oggetto prodotto da questa”. Si trattava di un passaggio dall’ambito fisico all’ambito estetico, quasi di morte e resurrezione degli enti individuali. Nell’esempio del poeta catalano López Picó, analizzato da Ortega, si parla del cipresso come dello “l’espectre, d’una flamma morta”. La metafora ha ucciso il cipresso reale e ha creato un cipresso estetico la cui vita interiore è una fiamma, seppur morta. È un processo di sintesi. Il nuovo cipresso estetico ci permette di conoscere l’io del cipresso come fiamma, il fondersi con la fiamma e il continuare a vivere dopo essersi spento, come un tizzone, in cui le zone scure segnalano ancora il fuoco precedente. Ortega così esclude una non-identità del mondo fisico per inaugurare un’identità nel mondo estetico. In ogni caso, però, la metafora è possibile perché c’è una metafora che trascende ogni estetica: la trasformazione degli esseri in attività personale, in un “io”, la trasposizione dal loro posto reale nel mondo ad un posto nell’ambito del sentire. Questa è la fine della mancata identità tra l’io personale e quello degli altri esseri e s’inaugura un’identità comune, realizzata dalla sfera estetica. Ogni metafora è la scoperta di una legge dell’universo estetico, universo essenzialmente panteista dove ciascun Io è Uno. L’ontologia dei regni dell’essere, base del pecettivismo orteguiano, permetteva questa teoria della metafora come teoria generale dell’arte. È strano che l’approccio più sistematico alla metafora non proceda interamente da questo passaggio kantiano. È curioso ma spiegabile. Hans Blumenberg si fonda, di fatto, su Husserl, che a sua volta si dedicò all’elaborazione di una fenomenologia come scienza rigorosa, in grado di ampliare al massimo ciò che è possibile concettualizzare, in modo tale che non si potesse sentire la mancanza di ciò che ancora esiste oltre i propri limiti. Blumenberg guardò con ironica pietà l’opera del maestro (quello sarà il gesto che lo indisporrà per sempre nei confronti di Heidegger), e trovò che tutto il suo pensiero dipendeva da una metafora di base: la fondazione originaria (Urstiftung). Senza dubbio, come dimostrò nella sua abilitazione, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls (1950), questa fondazione originaria aveva una struttura peculiare. Dobbiamo immaginarla, ma la possiamo solo intravedere come una perdita. Visto che la fenomenologia cerca un fondamento essa finisce per affermare che l’uomo ha avuto solo talvolta un sogno solido. Di questo terreno fermo dell’umana esistenza rimangono poche tracce. Innanzi tutto ci rimane l’ansia di sicurezza. Che la fermezza, la stabilità di quella forma d’esistenza nel mondo, la vita, sia più forte della scienza, è la ragione della nostra delusione nei confronti della scienza. La metafora, che rappresenta principalmente una dissonanza nell’ambito di questo progetto scientifico fondamentale, non solo non è stata bandita, ma è stata sopportata e spesso addirittura cercata. Questo è il problema di Blumenberg. A suo giudizio, la delusione della scienza e l’accettazione della metafora avrebbero una radice comune: creare un collegamento con gli strati arcaici del processo di curiosità teorica. La metafora ci manterrebbe ancorati all’ambito della vita. La fiducia che abbiamo in lei è un’impronta archeologica della sicurezza che si suppone l’essere umano aveva avuto nel mondo della vita. Blumenberg è riuscito a creare un laboratorio filosofico complesso, nel quale Freud assume una posizione assolutamente centrale. Il mondo della vita è un territorio nel quale la legge non è imposta dalla coscienza, Questa, come esposto chiaramente nel suo Tractatus, proclamando la perenne ripetizione della tautologia, obbedisce all’istinto di ripetizione, alla spinta verso l’autoaffermazione. La coscienza, afferma Blumenberg è rimasta così “consegnata alla cura della propria identità” (Blumenberg 1979, p.116). Questa tirannia dell’identità non dobbiamo supporre appartenga alla forma incosciente del mondo della vita. Al contrario, bisogna assumere che questa coscienza basata sull’identità sia la riparazione di un disturbo nell’ambito della relazione stimolo-risposta. Prima di questo disturbo non era necessario assumere la rigorosa politica dell’identità. La metafora è un’impronta di quella vita non costretta dall’istinto di ripetizione e d’identità ma anche del processo di riparazione e di trasferimento entro l’ambito dell’identità di ciò che si presenta come diverso e al tempo stesso uguale. La metafora è una reinterpretazione, una strategia che permette di far arrivare alla coscienza qualcosa che per principio lotta per fuggire da essa, qualcosa che appartiene alla Lebenswelt, dove le cose erano solide e avevano un significato. Impronta di questo significato è la metafora, che risveglia l’entusiasmo atavico, afferma Blumenberg, in una natura che è allo stesso tempo stabile, ferma e da decifrare. Se il processo di conoscenza si fonda sulla continua perdita delle domande che lo hanno avviato, la metafora ci parla di quello che perdiamo in tutte le scienze. Per Blumberg, come per Ortega – le cui carriere intellettuali si somigliano per molti aspetti –, solo l’aggettivo “estetico” permetterebbe il ritorno della metafora dall’esilio, entro un mondo determinato dall’esperienza disciplinata. Solo l’estetica offrirebbe una licenza disinibitoria alla metafora. Ma è propriamente quest’interpretazione estetica della metafora che ci impedisce di comprendere la sua profonda dimensione antropologica, che non si può confondere con nessuna delle competenze tecniche concrete, che formano parte dell’estetica. Una sicurezza e una significatività del mondo intero, aldilà delle identità della coscienza, tanto più necessaria ed efficace quanto più riesce a racchiudervi il senso del mondo nella sua totalità, creando così l’unica forma di coscienza in grado di offrirci di nuovo la fede perduta nel mondo della vita. Questa è l’essenza d’una metafora speciale, chiamata da Blumenberg “metafora assoluta”. È indubbio che tutti coloro che si sono occupati di metafisica hanno cercato sempre di trasferire queste funzioni in una forma operativa che fosse simile alla scienza. Come in Kant, queste operazioni della metafisica non possono essere tolte all’uomo, né possono soddisfarci. Accade come nel caso dei miti. Semplici simboli e idee, continuano, tuttavia, a sedurci con la loro eterna pretesa d’essere presi alla lettera. Denotazione/Connotazione, Discours, Lebenswelt, Mondo della vita, Rede. Cohen H., 1922, Ästhetik des reinen Gefühls, vol. I. Berlin, Cassirer. Black M., 1962, Models and Metaphors, N. Y., Ithaca, Cornell University. Beardsley, M. C., 1858, Aesthetics: Problems in the Philosophy of Criticism, New York, Hackett. Ricouer P., 1972, La métaphora et le problème de l’hermenutique, <<Revue philosophique de Louvain>>, n. 70, pp. 92-112. Ortega y Gasset, J., 1982, Obras Completas, Alianza Editorial, Madrid. Blumenberg, H., 1960, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Bonn, Bouvier; trad. it. 1969, Paradigmi per una metaforologia, Bologna, Il Mulino. Blumenberg, H., 1979, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt a. M., Suhrkamp; trad. it. 1985, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna, Il Mulino. Haverkamp, A., a cura, 1983, Theorie der Metapher, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft. Borsari, A., a cura, 1999, Hans Blumenberg, Mito, metafora, modernità, Bologna, Il Mulino. |