Una pratica storiografica nata in Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del xx secolo diviene nota con il nome di microstoria: un termine dalle numerose precedenti utilizzazioni lessicali, che diviene etichetta del lavoro teorico e metodologico, nonché della prassi di ricerca di un gruppo di storici attivi in quegli anni soprattutto nelle università di Torino, Genova, Bologna, e in diversi laboratori di ricerca più o meno formalizzati. La rivista Quaderni storici, edita dal Mulino (in particolare le annate tra il ’76 e l’83 e, successivamente, in maniera meno militante), e la collana di Einaudi Microstorie, curata da Simona Cerutti, Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, hanno ospitato il dibattito, la ricerca e le traduzioni di lavori che questo gruppo tutto sommato eterogeneo di storici giudicava significativi per la costruzione di quello che si sarebbe configurato, al di là delle loro intenzioni,  come un nuovo paradigma storiografico, e che sarebbe divenuto negli ultimi anni uno dei luoghi più significativi del dibattito epistemologico tra gli storici.

Malgrado la programmatica assenza di manifesti e l’avversione per la costruzione di sistemi concettuali definitivi da cristallizzarsi in una scuola, il gruppo è però unito da un forte collante antirelativistico, duramente critico nei confronti del rethorical turn e della visione della storia come attività retorica che interpreta testi e non eventi. Al centro del lavoro dello storico c’è piuttosto “la ricerca della verità relativa al modo conflittuale e attivo degli uomini di agire nel mondo” (Levi 1993, p. 112). Tuttavia, i procedimenti narrativi e le forme di scrittura della storia sono oggetto di scelte e di analisi esplicite, in quanto è proprio nella narrazione che emerge programmaticamente la parzialità e la frammentarietà del punto di vista dello storico. Vi è un forte interesse per gli strumenti formali di astrazione, e per  l’esplicitazione e la  verifica delle procedure. La reazione ai grandi sistemi di analisi e interpretazione disponibili in quegli anni, ovvero quello marxista, quello struttural-funzionalista e quello macroscopico-quantitativo di Braudel e delle Annales conducono alla ricerca di “un paradigma imperniato sulla conoscenza dell’individuale che non rinunci a una descrizione formale e a una conoscenza scientifica anche dell’individuale” (p. 129). L’individuale infatti – il fatto anomalo, l’emergenza, l’avvenimento, ma anche una rete di relazioni, una congiuntura, una logica di transazione, un sistema di credenze, una identità di gruppo – piccolo o grande che sia, non deve mai perdere la possibilità di essere inserito in un’ottica comparativa che lo renda controllabile; e solo alti livelli di formalizzazione consapevole ne consentono, attraverso la comparabilità appunto, l’aggancio alla realtà dei fatti e l’emersione dal magma dei racconti. È per questa ragione che, in ambito microstorico, è tanto importante la nozione di contesto con un significato “formale, comparativo, fatto dall’inserimento di un avvenimento, comportamento o concetto nella serie di avvenimenti, comportamenti, concetti simili, anche se lontani nello spazio e nel tempo. Una contestualizzazione che presuppone la comparabilità di strutture formalizzate ed esplicitate. Non è solo la contestualizzazione  che prevede l’inserimento del membro di una classe nella classe caratterizzata da uno e più aspetti comuni, ma anche quella basata sulla classificazione analogica, di similitudini ‘indirette’. Il contesto è l’identificazione non solo dell’insieme di cose che condividono un carattere comune, ma può anche essere l’area di un’analogia, l’area cioè della similarità perfetta di relazioni tra cose anche notevolmente diverse, fra sistemi di relazioni in cui cose differenti sono inserite” (p. 128). Ogni attore storico si inscrive così in contesti di dimensioni e livelli differenti, da quello globale a quello locale. Non vi è pertanto opposizione tra storia locale e storia globale, tra metodi quantitativi e qualitativi. La microstoria diffida piuttosto degli usi consueti della serialità, che prendono in considerazione solo le omogeneità comparabili;  utilizza invece le anomalie (spie, tracce, indizi) per fare luce su serie documentarie altrimenti basate sulla conformità, e dunque opache. Attraverso l’eccezionale normale (il celebre ossimoro polisemico coniato da Edoardo Grendi) emergono le incoerenze della realtà e dei sistemi normativi, al cui interno vengono costruiti i percorsi strategici degli attori storici, di cui viene quindi messa in risalto la creatività, la capacità di manipolare, di contrattare, e non la mera responsività alle condizioni del contesto, come il funzionalismo aveva invece suggerito. Eccezionale normale, dunque, perché una testimonianza, un documento, un avvenimento unici contengono in sé elementi tanto normali da non essere stati scorti in precedenza (come la lettera smarrita di Edgar Allan Poe),  che forniscono però le chiavi di lettura per decodificare ciò che sarebbe muto se guardato solo dal punto di vista della iteratività dei fattori: il grande da cui si scenderebbe deducendo al piccolo, o nei confronti del quale il piccolo sarebbe solo un’esemplificazione; oppure il campione rappresentativo utilizzato dalla storia sociale.

Dunque l’opzione di scala risulta decisiva. Non si tratta di una scala necessariamente riferita alla grandezza: i contesti possono essere amplissimi, nello spazio e nel tempo, come le esperienze del sabba della Storia notturna di Carlo Ginzburg (1989). Semplicemente, un’osservazione microscopica condotta con una procedura intensiva mostra cose che, dalla distanza, non si sarebbero potute veder accadere. La possibilità di cogliere le prospettive individuali però non conduce allo scetticismo, aborrito dai microstorici: piuttosto, ogni configurazione sociale, culturale, economica  è il risultato dell’interazione di innumerevoli strategie individuali. Il concetto di strategia è però molto diverso da quello connesso alla razionalità ottimizzante. Per la microstoria, invece, le strategie sono opzioni all’interno di campi di possibilità (questi sì formalizzabili e codificabili), spinte da sentimenti, credenze, motivazioni; hanno in sé i caratteri del progetto e quelli della necessità. Viene valorizzato il carattere processuale e generativo dei contesti storici, costruiti appunto dall’intrecciarsi di visioni parziali, razionalità limitate, transazioni provvisorie, conflitti, negoziazioni che normalmente verrebbero letti, in chiave funzionalista, solo in base ai loro esiti conclusivi. Così pure le categorie di analisi del sociale (le classi, le corporazioni, il mercato, la parentela) non possono essere poste aderendo acriticamente ad una delle loro rappresentazioni finali, ma vanno riformulate e complicate seguendo il processo della loro costruzione. Non più, dunque, come categorie esterne alla configurazione analizzata, ma come identità specifiche e quindi plurime, fedeltà plurali degli individui che si sostanziano nelle coerenze dei loro comportamenti motivati. La microstoria vuole vederle come pratiche, che siano sociali, economiche o culturali: comportamenti orientati dal progetto, plasmati dalla disponibilità di risorse (materiali e/o simboliche) e limitati dalla parzialità delle informazioni, capaci di modellare le norme e di esserne a loro volta modellate, profondamente calate nella dimensione collettiva pur essendo identificabili come soggettive, talvolta contraddittorie, ambigue. È proprio l’accentuazione della dimensione collettiva delle pratiche (connessa a uno degli ambiti di origine della microstoria, gli studi di comunità) che evita di ridurre il culturale al mentale: anche la cultura è ricostruita attraverso le pratiche sociali. Contestualizzazione culturale e contestualizzazione sociale vengono reciprocamente ricondotte. In effetti, il dibattito internazionale che si è confrontato sulla microstoria ne ha invece messo a fuoco separatamente  di volta in volta un versante: negli Stati Uniti vi è stato maggiore interesse per la discussione dei paradigmi della conoscenza (e difatti Muir ha parlato, per il caso di Ginzburg, di cultural microhistory), in Francia per le connessioni con la storia sociale europea. L’approccio di storia culturale e quello di storia sociale, invece, sono fortemente collegati proprio a partire dalla volontà degli storici di non scindere mai comportamenti e culture, fatti e rappresentazioni. In questo senso è Carlo Ginzburg a raccogliere la sfida scettica proposta dal linguistic turn, laddove la storiografia risulta ricondotta alla sua dimensione testuale, non solo estranea, ma anche contrapposta alla prova. Ginzburg intende trasferire nel vivo della ricerca le tensioni tra narrazione e documentazione, in una fase in cui la contiguità largamente accettata tra storia e retorica ha respinto ai margini quella tra storia e prova. Anche le soluzioni narrative percorse dallo storico sono strategie, strategie narrative appunto. La narrazione riflette il percorso di ricerca, respingendo il luogo comune di origine ottocentesca dello storico narratore onnisciente. Pertanto gli ostacoli frapposti alla ricerca sotto forma di lacune e distorsioni della documentazione devono diventare parte del racconto. La costruzione retorica però non è incompatibile con la prova, e con il principio di realtà. La conoscenza – anche la conoscenza storica – è possibile, afferma Ginzburg, significando con questo non solo uno dei versanti fortemente condivisi, ma anche una delle specificità della microstoria italiana. Della conquista del Nuovo Mondo abbiamo soltanto dei racconti, ma non vi è dubbio su chi abbia vinto, esemplifica Ginzburg. Una volta esaurite tutte le narrazioni, constatata la pluralità delle esperienze individuali, esperite le possibilità delle critiche testuali, resta pur sempre un residuo insopprimibile di realtà, come l’unico testimone del suicidio di massa degli ebrei di Masada tramandato da Flavio Giuseppe. Testis unus, testis nullus recita la massima giuridica medievale; e tuttavia quello che per il giudice dà luogo al non liquet, per lo storico suscita ulteriori congetture, analogie, possibilità. Il principio di realtà provoca attriti che l’immaginario storiografico di Hayden White, da solo, non esperisce; richiama la storia come responsabilità del testimoniare, rammentando il doppio significato dello stesso termine  testimonianza:  la conoscenza diretta di un fatto e l’attestazione ad altri di quel fatto.



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