Nei lavori sul multiculturalismo si dovrebbe avere a che fare con un’idea di cultura che si eleva a pietra angolare degli studi culturali tout court. Invece si è teorizzato a stento su questa idea, e molte volte essa presenta internamente aspetti discutibili o differenze molto profonde a seconda dell’autore che la tratta. Alcune volte la definizione di cultura prende le mosse dalla vita sociale, dalla politica e dallo Stato, quale espressione dei più alti valori dei corpi sociali; mentre, altre volte, essa si definisce attraverso i fini umani dell’autoconoscenza, dell’autoespressione, del riconoscimento e della comunicazione, fini cui la prassi culturale sembra sempre aspirare.

Alcune volte la cultura viene definita sulla base del lavoro autonomo della personalità umana, e altre volte sembra riflettere una posizione più consona  alle vecchie concezioni del mondo, un’appendice romantica alle concezioni del XIX secolo.

Per via di questo spostamento semantico costante, l’argomento cultura si stacca dall’attuale dibattito iniziale, che ha a che vedere essenzialmente con il benessere e con la dimensione etica dell’uomo, come accade nell’opera di MacIntyre, per ancorarsi a contesti che sono evidentemente politici, come già succede nell’opera di Kymlicka o di Taylor. A secondo della definizione, la cultura, naturalmente, accetterà strategie proprie del multiculturalismo o aspirerà alle forme omogenee dello Stato-nazione o del comunitarismo.

In se stesso, questo spostamento non è illegittimo, tuttavia il non renderlo cosciente può ostacolare i problemi analizzati con un surplus di conflittualità concettuale incontrollabile. Di fatto, la rilevanza del tema della cultura è sorta da quelle argomentazioni comunitariste sollevate contro il liberalismo di Rawls, che reclamava la neutralità culturale dello Stato democratico.

È indubbio che questa contrapposizione fosse ingiusta e teoricamente sterile. Non condusse, quindi, all’analisi del problema centrale, ovvero, all’individuazione di una comunità eticamente e culturalmente rilevante.

L’opera di Rawls non intendeva proporre una teoria sociale completa. Voleva offrire strumenti teorici in virtù dei quali una società democratica potesse far fronte al problema della distribuzione di un determinato bene, considerato però come forma astratta. Distinguendo tra vita razionale e vita ragionevole, il liberalismo d’ispirazione rawlsiana accettava che lo Stato democratico fosse costituito su basi razionali. Riconoscendo però a tali basi soltanto un valore formale e procedurale, intendeva dire che si lasciava spazio a diverse interpretazioni materiali della vita cosiddetta ragionevole. Supponendo che una contraddizione essenziale tra la vita razionale e la vita ragionevole non fosse possibile, il liberalismo non solo professava un ottimismo molto illuminato, ma scommetteva a favore di un’esistenza priva di contraddizioni tra le dimensioni politiche e le dimensioni etico-culturali dell’uomo. In tal senso, lo Stato liberale di Rawls poteva essere uno Stato multiculturale.

In effetti, Rawls era a favore di una moderna e cosciente separazione delle sfere di azione sociale, in senso weberiano. In ogni caso, però, il liberalismo della Theory of Justice (1971) non faceva previsioni concrete e materiali riguardo agli elementi culturali di queste dimensioni etiche “ragionevoli”, che risultavano perciò consegnate alle loro stesse dinamiche di produzione etico-culturale. Una critica radicale di queste tesi presupporrebbe il disconoscimento dello sforzo rawlsiano. Il multiculturalismo non era altro che un presupposto in Rawls, il quale aveva a suo sostegno l’esistenza di una società multiculturale realmente presente negli Stati Uniti.

I dilemmi della filosofia pratica tradizionale trovavano un elegante, sebbene molto astratto, equilibrio proprio all’interno della Theory of Justice. Nella misura in cui le concezioni del benessere e della ragionevolezza possono sostituirsi alle posizioni minime della vita razionale, l’uomo godrebbe di un ordine pratico nel quale il bene politico sarebbe compatibile con la pluralità dei beni etici e culturali.

Da questo punto di vista, Rawls comprendeva nel suo orizzonte non solo la corretta amministrazione del rapporto tra sfere d’azione differenti (la politica e la cultura), ma anche la tradizionale dimensione di tolleranza verso quelle concezioni della vita ragionevole compatibili con le basi razionali della democrazia. Il multiculturalismo era in grado di dispiegarsi così in una gamma d’interscambi che andavano da quelli minimi, entro universi privati, a quelli più intensi degli universi pubblici che si muovono a proprio piacere in uno Stato liberale giacchè ne condividono le premesse fondamentali. L’universalismo della vita razionale politica sarebbe compatibile con il particolarismo della vita ragionevole etica e culturale. La difesa dei diritti umani universali includerebbe così la tolleranza dell’altro, connotato culturalmente, purchè la sua vita rientrasse nella nozione di “ragionevole” e garantisse il livello minimo di vita razionale della giustizia politica.

Il problema si acuisce con due obiezioni. Primo: la decisa impronta normativa che si supponeva esistere nella nozione di “vita ragionevole” non si rendeva esplicita e manifesta. Rawls alludeva a questo nei suoi appelli al principio aristotelico che si trova alla base del progetto di vita ragionevole e sicuramente favorevole al multiculturalismo. Tuttavia, il suo modo di affrontare il tema è alquanto sterile. Secondo: la vita ragionevole, in quanto struttura formale, continuava ad avere bisogno di una realizzazione fondamentalmente individuale. Si trattava della stessa vita organizzata sulla premessa dell’autonomia, applicata alla nostra stessa esistenza, e sorretta, per il principio aristotelico della ricerca della massima complessità e varietà, dalla mia esperienza. In certo qual modo, la base normativa convergente dipendeva dal suo ancoraggio all’individuo razionale e ragionevole. Rawls non pensò mai al problema dato da un multiculturalismo reale che implica relazioni tra gruppi e, soprattutto, tra gruppi comunitari.

Aspirando ad una vita individuale ragionevole, e benché Rawls tenesse in conto il tema del riconoscimento solo en passant, la dottrina non si fermava al problema dell’integrazione all’interno del gruppo, necessaria all’individuo per la socializzazione. “Ogni persona è libera di progettare la propria vita come le piace” è un enunciato che suppone già realizzato l’ideale dell’autonomia. Già allora si sapeva, tuttavia, che l’autonomia della vita ragionevole risultava non vitale se priva del riferimento ad un gruppo che ne condivide valori, significati, punti di vista, tradizioni, etc. Cosicché risultò evidente che Rawls, con la sua teoria della giustizia, non rendeva conto di tutti i fenomeni della cultura liberale, ma solo del problema della giustizia rispetto a beni omogenei e comuni. Questa era la cornice razionale per costruire la vita ragionevole, ancorata alla cultura. I problemi specifici di questa costruzione non venivano, però, affrontati.

Insistendo – come già sapeva Rawls – sui principi diversi di “giusto” e “buono” e segnalando il carattere sociale e tradizionale del problema (che Macintyre dimostrò essere parte anche del principio aristotelico), veniva favorita un’operazione di taglio filosofico più che realistico. Riconoscendo la necessità dei gruppi culturali per una vita ragionevole si fecero però due passi avanti: primo, si abbandonò la radice comune della vita buona e della politica giusta, nel modo in cui essa si realizzava nell’individuo autonomo e libero, in astratto. La vita buona giunse ad avere una base comunitaria, non individualista. Ma si abbandonò anche – e questo non è stato percepito chiaramente – l’aprioristica convergenza normativa che si presupponeva nel considerare ciò che è giusto e ciò che è buono come due modi di usare la stessa ragione e autonomia umana.

Il giusto e il buono non avevano ragione di costituire una struttura morale. Ora, s’insisteva sulla necessità per un gruppo sociale di raggiungere il benessere; non si poneva però la stessa insistenza sul fatto che questo gruppo dovesse assumere anche una vita giusta. Questa tensione, nata dall’idea che una cultura possa anche non voleren essere giusta, non era presente nello scenario prospettato da Rawls. Però, non appena entrati in funzione i gruppi comunitari culturalmente connotati, non era possibile garantire la stessa base normativa tra comunità e Stato. Niente garantiva che la vita del gruppo, necessaria al benessere, fosse anche normativamente razionale o adeguatamente ragionevole.

Nella misura in cui il gruppo era necessario, col suo carico di tradizioni, di valori materiali da trasmettere all’individuo, non si poteva più parlare di benessere sulla base della vita ragionevole individuale, ma di benessere sulla base della vita produttiva della comunità. Alla giustizia non poteva bastare che l’individuo autonomo facesse la propria vita, senza che anche il gruppo costituisse oggetto di giustizia, indipendentemente dal fatto che al suo interno vigessero i principi razionali e ragionevoli della vita; cioè, che la giustizia fosse riconosciuta tra i suoi valori.

Ora il problema non si poneva come sintesi tra la dimensione razionale e ragionevole della società e degli individui, ma tra lo Stato, che si regge su individui razionali, e le comunità che permettevano il benessere dell’individuo, e che concettualmente non hanno ragione di essere né razionali né ragionevoli. La tensione tra un aspetto della vita in cui l’uomo doveva agire come individuo politico, e l’altro aspetto in cui doveva agire come parte di gruppi comunitari, era così garantita. Là dove sorse questa tensione, nacque la tentazione di creare una teoria alternativa a quella di Rawls: ricostruire l’organismo pratico di politica, morale e cultura su basi esistenziali comunitarie, lontane e opposte alle basi normative di Rawls.

Così si pensò di fare della politica l’azione del gruppo connotato in senso comunitario e culturale. Dal sostenere una politica che lasciava la cultura all’ombra della vita personale con le sue decisioni inderogabili e responsabili, si passò ad una cultura di gruppo che definiva autonomamente la politica. Questa opposizione non poteva sviluppare opzioni multiculturali. Qui le comunità erano consegnate a una strategia di autoaffermazione che escludeva la comunicazione con l’altro. Il liberalismo può essere multiculturale. Il comunitarismo in senso stretto, come dimostra il nazionalismo, non può esserlo in alcun modo.

L’unica maniera di risolvere questa tensione tra il liberalismo e il comunitarismo – e dar luogo a proposte multiculturali – consiste nell’innestare nella struttura fondamentale della modernità una certa differenziazione delle sfere d’azione sociale. La prima tesi fondamentale sostiene che ognuna delle sfere d’azione ha le proprie basi normative. La seconda stabilisce che queste basi normative possono entrare in tensione tra loro, in modo tale che i valori di alcune si scontrino frontalmente con i valori di altre. La terza sostiene che è necessario stabilire discorsi, retoriche e strategie che permettano di ridurre le situazioni di conflitto tra le sfere di azione, ma anche che non esiste filosofia sistematica in grado di organizzare un sistema pratico. La quarta tesi suggerisce che non bisogna escludere le decisioni drastiche, in modo tale che si stabiliscano gerarchie tra queste sfere di azione, affinchè si limitino le pretese di totalità di alcune di esse per ricostruire un cosmo pratico globale in grado di andare contro le basi stesse della modernità.

Applicando queste regole possiamo chiarire alcune cose. Prima di tutto che il liberalismo credeva di potersi riconciliare con alcune forme di comunitarismo, che era strettamente culturale e che si atteneva alle regole dell’interscambio di significato culturale. Questo implica che il liberalismo può essere coerente con un comunitarismo nella misura in cui questo può dispiegare strategie multiculturali. Gli individui dovevano riconoscersi in modo complesso, per dirla con Walzer: dovrebbero sapersi uguali come cittadini e diversi come uomini culturalmente connotati. Non dovevano, però, divulgare queste differenze culturali eo ipso come differenze politiche o avere aspirazioni di riordinamento dello spazio politico. Gli individui potevano lottare per interessi che in certo modo fossero omogenei – distribuzione dei beni sociali fondamentali in grado di condizionare la vita sociale e la libertà fondamentale per il significato della loro autonomia anche di gruppo –, ma partendo da strutture di giustizia statale e sociale complesse potevano anche combattere per altri beni eterogenei che non raggiungessero la totalità della cittadinanza. Per dare impulso a questa divisione secondo sfere di giustizia – questo fu l’apporto di Walzer, coincidente con la teoria delle sfere di azione –  non era necessario insistere sul fatto che alcune rivendicazioni fossero di competenza della vita pubblica, mentre altre della vita privata. Potevano essere tutte pubbliche, ma ognuna di esse retta da una regola diversa: mentre una sfera di giustizia condivideva beni universalmente comuni a un gruppo di cittadini, in altre sfere, relative alla vita comunitaria e culturale, si poteva condividere il benessere culturale in gruppi più o meno ampi, con interscambi di significati tra loro.

I modi di affrontare il significato della giustizia potrebbero variare in tutti questi casi e richiedere comportamenti interpersonali diversi, dei quali uno – non l’unico – poteva essere costituto dal concetto d’imparzialità di Rawls. Supponendo che formassero parte della vita pubblica, e che non distruggessero le sue stesse basi normative di libertà e di autonomia, le forme di vita culturale avrebbero potuto garantire la loro ragionevolezza in questa difesa pubblica del loro riconoscimento. Su questo terreno di dibattito e d’interscambio avrebbero altresì esibire quelle pretese normative che rientrano nella loro visione culturale del mondo e dell’uomo.

In ogni caso, la posizione assunta da Walzer nell’intento di conciliare ciò che ha chiamato Liberalismo 1 e Liberalismo 2 ha bisogno di essere chiarita riguardo al diverso comportamento che il liberalismo politico può assumere nei confronti della cultura. Posto lo Stato liberale, a suo giudizio,  esso deve entrare nel merito del problema della giustizia culturale, e posto che non c’è ragione a priori di supporre che qui regni un velo d’ignoranza, non c’è ragione d’identificare la giustizia con l’imparzialità, con la tolleranza indifferente o con la riduzione della cultura alla sfera privata. Non c’è ragione, pertanto,  di credere che la giustizia culturale nello Stato liberale abbia un unico significato. In ogni caso, va definita questa varietà di relazioni tra il liberalismo e la cultura. Questa varietà definirebbe una gamma di comportamenti giusti, che penso non sia in grado di attutire le tensioni, ma che certo le descrive correttamente. Uno Stato che conservi un significato liberale della politica, e che s’integri a un senso di giustizia culturale, ci sembra necessario se si vuole proporre un repubblicanesimo moderno e attuale, alieno al repubblicanesimo omogeneamente culturale della tradizione.

Non possiamo riprodurre, qui, tutto il dibattito. Voglio solo argomentare ciò che sembra essere la chiave di tutto il problema. Si tratta di definire se lo Stato debba comportarsi nei confronti della cultura allo stesso modo che nei confronti della religione, cioè, mediante la lex permissiva e la tolleranza indifferente, o se, al contrario, debba regolare le sue relazioni con la cultura in modo positivo. Inoltre, lo Stato deve capire, materialmente, fino a che punto, e a quali condizioni la cultura comunitaria costituisca parte delle condizioni necessarie al benessere. Davanti a un bene chiaramente positivo, lo Stato non può mostrarsi indifferente e tollerante in senso negativo.

L’argomentazione opposta gioca con l’idea che lo Stato moderno ha le sue ragioni per dichiararsi neutrale in materia di religione, dato che questa, con le sue dispute accademiche e con le sue pretese di comunità totale pratica, aveva bagnato di sangue la vecchia Europa. Pertanto, per evitare questi casi estremi, lo Stato deve lavorare a favore di una comprensione della cultura pubblica tale da impedire le dinamiche di autoaffermazione, in grado di potenziare gli interscambi di significato propri delle strategie multiculturali e di evitare questo tipo di contrapposizioni che richiamano la neutralizzazione drastica della vita culturale e la sua riconduzione all’ambito della vita privata.

In ogni caso, quando si parlava di vita ragionevole, come forma implicitamente normativa della vita culturale individuale, si proponeva una dimensione compatibile con la razionalità della vita politica liberale. Quando si parla di benessere, ancorato in seno ad una vita tradizionale e comunitaria, non s’include a priori alcuna dimensione normativa, cosa che di fatto non garantisce che si tratti di valori e diritti compatibili con quelli che sottendono allo Stato democratico. Nel caso fossero incompatibili, la domanda riguardante l’atteggiamento assunto dallo Stato – e dai suoi cittadini – nei confronti di queste forme di benessere comunitario, diventerebbe insostenibile. Sarebbe allora il momento di prendere decisioni drastiche e di forzare i gruppi comunitari a rientrare entro i limiti della sfera di azione culturale. Sarebbe il momento di ricordare il valore sovrano della sfera politica.

La società attuale non può vivere nell’orizzonte contraddittorio di uno Stato normativamente fondato e di una vita comunitaria restia ad ogni riflessione e tensione normativa, che dipende incondizionatamente dalla mera autoaffermazione esistenziale.

Perciò se non definiamo con più precisione la nozione di cultura e il suo vincolo positivo con il benessere, non possiamo procedere nell’analisi di questi problemi. Poiché solo così potremmo risolvere il problema dell’individuazione della cultura genuina affine, per elezione, alla base normativa dello Stato liberale, e in relazione ad essa discriminare e combinare le posizioni della giustizia e riconoscere le diverse forme di cultura.

La politica del riconoscimento non è quindi altro che una consegna astratta: non c’è un unico modo di considerarla né un unico contesto rilevante per le operazioni che richiamano e determinano questo riconoscimento. Inoltre, se non identifichiamo le forme di riconoscimento, come ha tentato di fare Honneth riguardo la morale, è poco probabile che vi sia una vitale proposta di giustizia. Da una parte, dobbiamo modificare la nostra comprensione dello Stato neutrale e dobbiamo introdurre in esso qualcosa di simile a una giustizia culturale. Dobbiamno accettare che lo Stato neutro liberale cambi. Per fare ciò è necessario partire da una comprensione della cultura tale che questa nozione possa assumere cambiamenti, parziali, forse, ma normativamente orientati. La conclusione è che deve cambiare lo Stato, ma deve anche cambiare l’idea di cultura.

Il multiculturalismo e le sue promesse di apertura, riconoscimento reciproco, fusione ermeneutica, interscambio di significati e lavoro sul mito, può essere un’occasione d’incontro in grado di cambiare le due sfere nello stesso momento.

I teorici del multiculturalismo, tuttavia, non adottano l’argomentazione corrispondente, quella che riguarda cioè il modo in cui dovremmo trasformare le nostre nozioni di cultura e di benessere in modo che lo Stato liberale – compreso quello che si confronta con doveri di giustizia culturale –  possa trovare il proprio cammino con i valori insostituibili che garantisce e incarna.

Sembra che solo questa situazione possa darci indicazioni precise a proposito delle tensioni tra cultura e politica, tra comunità e Stato e impedire così il ritorno di certi casi del passato. In questo modo si eviterebbe da un lato di usare la forza dello Stato neutrale come potenza omogeneizzante. Allo stesso tempo si eviterebbe però un altro eccesso meno evidente. L’argomento culturalista viene, di fatto, dominato dal valore della cultura, del benessere e della comunità in quanto bene superiore, perfino assoluto, e lo Stato è considerato un bene derivato e meramente strumentale. In questa visione, in somma, lo Stato dovrebbe inchinarsi al cospetto dell’idea di cultura e di benessere. Questa valutazione non è evidente di per sè. Inizialmente, registriamo la dinamica delle due sfere d’azione, Stato e Cultura, che non hanno definito precedentemente le leggi della loro relazione. È evidente che questa dinamica, senza regola fissa, costituisce il terreno della variabilità storica.

Non sarebbe difficile argomentare perché, in questo momento storico, si consideri spesso  necessario, che lo Stato debba cedere davanti al prestigio della cultura, della comunità e del benessere. Qualunque elementare indagine sociologica dimostra come il volto della burocrazia, della violenza politica, della coazione propria della prassi del potere, della corruzione amministrativa, della spietata applicazione della legge, della mancanza di solidarietà generale, affiori subito alla superficie osservando lo Stato. Questi fenomeni epidermici costituiscono una continua perdita di prestigio da parte dello Stato. Dato che, per poter giudicare immediatamente la validità dello Stato dovremmo arrivare all’osservazione delle situazioni caotiche che si creerebbero  in sua assenza e che implicherebbero la regressione alla barbarie più orrida, ne consegue che è facile giudicare il volto negativo dello Stato, i suoi clamorosi deficit, mentre è molto difficile apprezzare le sue silenziose virtù. Cosicché, quando collochiamo di fronte allo Stato il prestigio di una vita integrata in una comunità, sostenuta dai valori puri della comunicazione culturale, mantenuta entro le trame della vita propria della riproduzione simbolica, determinata dai sentimenti della solidarietà umana, ci sentiamo immediatamente inclini alla conclusione che lo Stato debba riconoscere la preziosa positività delle necessità culturali che si elevano all’interno dei nostri confini, per promuoverle con qualcosa di più che la mera indifferente tolleranza.

È possibile che questa inclinazione sia razionale, ragionevole e buona. Non può esserlo, però, se in qualche modo si torna a capo. Di fatto, nemmeno gli stessi partigiani della cultura del riconoscimento non hanno ben chiaro come fare. In tal senso, il lavoro di Taylor è soltanto preliminare, anche se non dovremmo dimenticare che i referenti della vita comunitaria e del benessere si trovano in gruppi umani sempre accolti in seno ad uno Stato liberale, di cui sfruttano le garanzie e che, pertanto, hanno tratti compensatori indubbi nella vita dello Stato.



Comunitarismo, Liberalismo, Riconoscimento, Vita razionale, Vita ragionevole.



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