La teoria queer e gli studi queer possono essere visti come un’articolazione di riflessioni teoriche e di indagini culturali interdisciplinari legate al terreno degli studi sulla sessualità, e in particolare agli studi gay e lesbici. Nel 1990 Teresa de Lauretis proponeva il termine di teoria queer come termine che doveva servire a problematizzare la formula, divenuta ormai automatica, di studi gay e lesbici; tale automatismo, se non esaminato criticamente, conduceva di fatto all’elisione delle differenze fra gay e lesbiche e alla naturalizzazione di una comune identità o esperienza di oppressione omosessuale. Lo scopo era riportare al centro del dibattito la questione teorica e politica delle differenze, che è questione cruciale sia per il movimento femminista che per il movimento omosessuale.
La scelta strategica di nominare e nominarsi diversamente, queer, indica inoltre una svolta linguistica, una focalizzazione sulla sessualità non in quanto realtà oggettiva bensì come terreno mutevole continuamente ridefinito dai discorsi, dalle rappresentazioni e auto-rappresentazioni di specifici soggetti culturali; la nominazione non è neutra, costituisce relazioni epistemologiche fra categorie e pone in essere soggetti sociali, non ultimi quelli omosessuali. Da invertito a omosessuale, da omosessuale a gay e lesbica, sino a queer i nomi sono stati la base di identificazioni e alleanze, di percezioni di sé e di politiche molto diverse. Neppure il nome gay è puro termine descrittivo, ma il segno storico di una auto-nominazione legata alla positività e all’orgoglio del movimento post-Stonewall.
La riappropriazione del termine queer, dunque, è significativa per almeno due motivi: è un termine che nella lingua inglese del Novecento è venuto a connotarsi come forma di hate speech la cui aggressiva riappropriazione è segnale di una strategia di attacco all’omofobia da giocarsi sul terreno stesso del linguaggio omofobico; in secondo luogo, è un termine che può riferirsi indistintamente a gay, lesbiche e a ogni altro soggetto sessuale percepito come perverso, deviato, anormale e fuorilegge (cfr. gli addensamenti semantici nei significati queer: strano, bizzarro, non regolare, inautentico) Può dunque operare come termine inclusivo, trasversale, che non ubbidisce al binarismo eterosessuale/omosessuale naturalizzatosi anche grazie alla costituzione di soggetti e comunità omosessuali legati all’idea di una identità sessuale naturale, innata o radicata in una differenza assoluta.
Rinominarsi queer significa introdurre una differenza, anzi moltiplicare il discorso delle differenze: non solo le differenze fra gay e lesbiche, e all’interno sia della comunità gay che di quella lesbica (la cui omogeneità tende a essere sovra-rappresentata da discorsi e strategie identitarie), ma anche la differenza fra le categorie sessuali naturalizzate dalla sessuologia positivista, secondo quella che Foucault ha definito una volontà di sapere (Foucault 1976). Nella Histoire de la sexualité questa produzione scientifica di soggetti sessuali caratterizza l’impulso disciplinante della società borghese da cui il binarismo omo/eterosessuale ha tratto la sua forza esplicativa, sino a diventare il modo dominante di dividere la sessualità umana nel Novecento.
Anche se la teoria queer viene elaborata a partire dagli anni Novanta in ambito americano il precedente di Foucault è di grande importanza, perché la svolta foucaultiana aveva preparato il terreno metodologico per studiare la storia delle identità sessuali con uno sguardo attento a non considerarle come il dato scontato da cui partire, ma semmai la questione stessa. Quello che è stato definito costruzionismo queer riprende da Foucault la strategia di decostruire le identità che passano come naturali considerandole invece come complesse formazioni socio-culturali in cui intervengono discorsi diversi. La storia della sessualità inaugurata da Foucault rappresenta sia una sfida alla retorica della liberazione sessuale che una chance di ripensare le differenze acquisite e le identità conquistate: riconoscere ad esempio le molteplici differenze che stratificano la stessa specificità omosessuale, la cui analisi non andrà mai separata da quella delle differenze di potere.
Ma ripensare le identità conquistate significa anche non fermarsi mai ad esse come se fossero il punto d’arrivo; anzi, il terreno di incrocio marcato instabilmente dal nome queer rappresenta la possibile emergenza di un terreno di alleanze che ecceda l’appartenenza a una identità interpretata come relativamente costante o addirittura biologicamente fondata. Gli studi queer interrogano ed esplorano la costruzione stessa del binarismo omo/etero come produttore storico di identità e come discorso regolatore delle medesime; la costruzione dell’omosessuale di fine Ottocento va indagata sia nella logica interna ai discorsi sulla sessualità di fine secolo, sia come possibilità di un discorso di rimando che ha rivendicato, dal punto di vista omosessuale, gli spazi cruciali dell’identità per sé creata (Foucault 1976).
I termini in opposizione binaria, compresi quelli delle identità sessuali, sono costruiti vicendevolmente in modo instabile: ciascuno nega l’altro ma ne dipende per la propria stabilizzazione; la netta separabilità di ciascuno è contraddetta dalla contiguità dei loro confini. Un esempio è dato da Eve K. Sedgwick che fonda la sua analisi dell’omofobia, ovvero del panico verso il desiderio omosessuale, spiegandola con la paradossale concatenazione di due strutture ideologiche: la prima, da lei denominata omosocialità maschile, rappresenta la forma egemonica in cui si manifesta la solidarietà vincolante il genere maschile detentore di potere; la seconda è il meccanismo ansiogeno che sempre più a partire dal Settecento pone dei limiti all’erotizzazione del vincolo omosociale, al fine di preservare la maschilità pura del soggetto maschile. L’opposizione omo/eterosessualità è vista come il risultato storico che servì a stabilizzare una assai più incerta opposizione omosocialità/omosessualità (Sedgwick 1985). Gli studi di Sedgwick mostrano una versione di studi queer intersecati con gli studi di genere. I primi possono intervenire nell’analisi critica delle costruzioni di genere in svariati modi, sia contestando che il genere da solo sia capace di esaurire il discorso culturale e politico delle differenze, sia mettendo ulteriormente in discussione il binarismo normativo dei generi, così come essi contestano il binarismo normativo delle sessualità. Ecco perché la rinominazione queer potenzialmente valorizza e sviluppa ogni contenuto di trasversalità, incrocio e perversione che la nitida separazione in opposti binari sembra prevenire e controllare. Da qui l’interesse cruciale degli studi queer per tutti i soggetti sessuali presi in mezzo dalle categorie binarie che producono non soltanto soggetti ma anche scarti categoriali, ibridi e nuove marginalità corporee: transessuali, transgender, travestiti e travestite, ermafroditi e androgini ecc..
Gli studi queer si pongono in posizione critica rispetto alle strategie e politiche identitarie legate al movimento gay e lesbico, che cerca un riconoscimento di diritti e il rafforzamento della comunità privilegiando narrazioni e auto-narrazioni tendenzialmente essenzializzanti. Jeffrey Weeks non è il solo a sostenere che nella stessa politica identitaria del movimento gay e lesbico c’è stata una tensione interessante fra un momento della trasgressione e un momento della cittadinanza; i due momenti tuttavia non sarebbero da intendersi né come opposizioni aut-aut (un nuovo binarismo gay/queer travisa il senso e l’utilità sia del primo che del secondo termine), né come stadi cronologicamente successivi di un processo di liberazione teleologico (Weeks 1981). Il momento della cittadinanza resta importante e la visibilità delle identità gay e lesbiche e delle loro manifestazioni nella storia e nella cultura non può essere abbandonata come strategia di resistenza, di fronte alle continue cancellazioni operate dalla eterosessualità obbligatoria (A. Rich): sinché l’eterocentrismo funziona come struttura egemonica, non si può non dire e non svelare l’omosessualità, appunto perché continuamente mascherata, nascosta, celata dalla norma.
Una prassi di letture e alleanze queer, post-identitarie, può spostare l’accento da un concetto di comunità naturalizzata a una comunità di pratica e di incrocio trasversale. Anche la comunità gay e lesbica può essere riletta innanzi tutto come un progetto di costruzione, un divenire che abbraccia marginalità e dissidenze localmente e temporaneamente contigue: si pensi alla rivolta di Stonewall, tramandata come scintilla iniziale del movimento di liberazione omosessuale del dopoguerra, ma in cui il ruolo di drag queens, di travestite e di transessuali, come Sylvia Rivera, è stato spesso marginalizzato. Gli studi queer favoriscono nuove narrazioni, nuove riscritture della storia delle marginalità sessuali, varianti meno rispondenti alla necessità di promuovere la visibilità di soggetti binari semplici, e più rispondenti alla necessità di riconoscere configurazioni identitarie e trasversali più complesse e pluralizzate. Sotto questo aspetto le teorizzazioni queer non solo promuovono desideri (ricerche e studi) di storie e narrazioni in cui le imbricazioni identitarie sono sempre molteplici e non pacificate, ma sono un aspetto di una più ampia e creativa produzione di rappresentazioni: artistiche (performance, cinema, teatro ecc.), attiviste e interventiste (gruppi di azione diretta come act-up). Il confine fra questi interventi – teorici, attivisti, artistici - è labile, impuro.
La divaricazione gay/queer è potuta sorgere in parte perché gli studi gay e lesbici sono stati percepiti come legati necessariamente a un discorso di liberazione anti-repressivo (di contro al concetto di produzione-repressione foucaultiano, per cui non esiste una repressività puramente negativa: la produzione di categorie è il rovescio oscuro da indagare del discorso repressivo); in parte perché, funzionando come discorso di rimando, di rivendicazione, gli studi gay sembrano dover presupporre una certa comunanza di metodo e di orizzonti con il discorso dominante con cui si negozia. L’anti-umanesimo di Foucault e il decostruzionismo di Sedgwick rappresentano invece tradizioni intellettuali che, sottoponendo a indagine critica i presupposti su cui fondiamo i nostri saperi occidentali, sono state ostracizzate come ideologie della morte del Soggetto, deboli nelle loro potenzialità liberatrici e poco adatte a fornire strumenti per soggetti già marginali (un analogo difficile rapporto ha segnato per es. le vicende di femminismo e post-strutturalismo).
Un’ulteriore significativa divaricazione è visibile nella terminologia e nello stile argomentativo, che hanno fatto parlare per gli studi queer, soprattutto di quelli più teorici, di un discorso per iniziati, dove la decostruzione delle categorie va di pari passo con l’adozione di un gergo oscuro, accademico. I riferimenti teorici, peraltro assai disparati, evocati dalla teoria queer appartengono a tradizioni intellettuali o filosofiche certamente non mainstream nelle facoltà umanistiche, tanto meno italiane. Questo fa sì che la strumentazione concettuale invocata da una parte della teoria queer appaia poco naturale, non ancora tradotta in senso comune. Forse è proprio il ruolo dell’ intellettuale organico gay e lesbico, portavoce di una comunità (J. Weeks), a essere entrato in crisi dinanzi alle spinte assimilative che hanno mutato gli orizzonti di trasgressione e resistenza del movimento degli anni Settanta.
Tuttavia la recente ristampa in Italia degli scritti teorici e militanti di Mario Mieli dimostra come uno dei massimi teorici e performer di trasgressioni prodotti dal movimento omosessuale alla fine degli anni Settanta possa agire come catalizzatore di pensiero queer trenta anni dopo. Mieli può essere quindi gay e queer: quando teorizza il desiderio omosessuale come universale e spezza il luogo comune della specializzazione omosessuale; quando teorizza l’orizzonte utopico e performativo della trans-sessualità, pone il soggetto omosessuale come un soggetto non essenzializzato, letteralmente transitorio, alla ricerca di una liberazione del desiderio e dalle identità (obbligatorie); quando applica categorie marxiste per svincolare la liberazione gay dal liberismo rappresenta una voce dissidente rispetto alle posizioni di chi oggi attende dal libero mercato le chances di integrazione altrimenti negate (l’omomercato e l’imprenditoria gay come via capitalista al riconoscimento e all’uguaglianza) (Mieli 1977).
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