Fino ai primi anni del 1990, il termine diaspora veniva usato per riferirsi al destino del popolo ebraico per indicare tanto la storia secolare dell’esilio degli ebrei dalla propria terra (dalla fuga dall’Egitto al ritorno alla terra promessa di Mosé, alla conquista babilonese nel 722 a.C. fino alla diaspora post-cristianesimo, che ha comportato l’incessante dislocazione di oltre cinque milioni di ebrei), che l’attuale condizione dei soggetti di cultura ebraica che continuano a risiedere altrove rispetto alla patria, oggi identificabile in Israele.

Ancora nel 1996, un volume prestigioso come il Dictionary of Global Culture, a cura di studiosi a loro volta diasporici, come Kwame Anthony Appiah e Henry Luis Gates, jr., usa il termine in tal senso. Appena un anno dopo, Robin Cohen intitola Global Diasporas (1997) un suo libro dove, pur facendo risalire il termine all’esperienza ebraica, mostra come la condizione diasporica appartenga a numerosissime culture, ovvero a tutte le comunità che vivono al di fuori della terra nativa, o immaginata tale, e che si riconoscono nella lingua, religione e cultura d’origine. Cohen, prendendo in considerazione le diverse forme che la diaspora ha assunto, distingue fra diaspore prodotte dagli imperi, o dalle colonizzazioni o dalla segregazione razziale ed etnica, e quelle prodotte dalla necessità di spostarsi per cercare lavoro, come nel caso degli operai e dei dirigenti delle odierne corporazioni transnazionali, fino a giungere alle diaspore culturali.

In genere gli studi sulla diaspora concordano nel definire tale i movimenti forzati di gruppi che hanno come riferimento una cultura condivisa, ovvero si ritiene che si possa parlare di diaspora laddove dei motivi esterni – povertà, persecuzione religiosa o politica, discriminazione, ecc. – spingano intere comunità ad emigrare, quando addirittura non ci sia una cacciata, che solitamente lascia i soggetti con la nostalgia della terra d’origine a cui anelano a tornare. Questo fa sì che sia gli spostamenti finalizzati alla colonizzazione, sia quelli intrapresi a partire dal sentimento di non sentirsi a casa nella propria patria, non possano mai essere classificati come diaspora.

Il salto da una concezione che legava la diaspora alla persecuzione religiosa del popolo ebraico a quella secondo cui la diaspora è un evento che ha colpito molte comunità nella storia dell’umanità, in ogni parte del mondo, producendo effetti come la schiavitù, l’emigrazione, la dislocazione, la ricollocazione, ma anche la globalizzazione culturale, è avvenuto grazie all’apporto delle analisi elaborate dentro gli studi culturali, che hanno consentito di rileggere la storia della schiavitù e della forzata transplantation dei popoli africani in Occidente, in particolare nelle Americhe, come diaspora afro-americana. Lo spostamento forzato di Africani verso le Americhe ebbe inizio con i primi insediamenti europei nel Nuovo Mondo, durò cinque secoli, e comportò un movimento stimato intorno agli undici milioni di persone. La scrittrice afro americana Toni Morrison arriva a parlare di sessanta milioni o più di africani, conteggiando anche quelli che, nella traversata Atlantica, chiamata middle passage, morivano per denutrizione, maltrattamenti, o si suicidavano (Morrison 1987). Per tutto il periodo della pratica schiavistica, nelle piantagioni venivano messi insieme Africani provenienti da varie parti del continente e quindi con lingue e culture diverse: in questo modo non solo non fu possibile conservare culture e tradizioni di riferimento, ma per comunicare, gli schiavi erano costretti a passare alla lingua del padrone. Dislocazione e maltrattamenti non riuscirono a spegnere la nostalgia della terra d’origine; i movimenti per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta fecero leva su questi sentimenti per forgiare un'identità culturale e politica. Ma solo negli ultimi anni del xx secolo ha avuto inizio il processo di rememory, ovvero di ricostruzione della propria storia, compresa quella della schiavitù, rimossa dalle coscienze in epoca recente, da parte della variegata comunità afro-americana del Sud e Nord America, comprese le isole, e il concetto di diaspora è divenuto centrale tanto per la ricostruzione della loro storia che per una rilettura della storia dell’Occidente che non può continuare a oscurare il contributo africano alla costruzione dell’Occidente né i flussi inevitabili che si sono creati fra Europa, colonie europee e culture colonizzate, come l'India ad esempio, e fra le Americhe e l’Africa.

Per diaspora studies oggi s’intende tanto studi sulla diaspora che studi che utilizzano la condizione diasporica che Gilroy descrive come una posizione di tensione e sospensione fra il da dove vieni e il dove sei ora, e i suoi effetti – dolore, lacerazione, nostalgia, ma anche fluidità, contaminazione. La diaspora, sostiene Homi Bhabha, apre spazi di negoziazione fra le culture, mettendo in crisi le pratiche di assimilazione e collaborazione (Bhabha 1990), per rimappare le storie culturali, mostrare come le stesse storie di ex-imperi ma anche dei singoli stati non possano più essere narrate come omogenee, unitarie. Come spiega Bronwyn T. Williams: entrare nelle problematiche della diaspora significa porre al centro l’instabilità dei segni dell’identità nazionale, la crisi sia del concetto di madrepatria – della nazione come dell’impero – che del concetto di terra natia (Williams 1999). Rispetto alle diaspore nate successivamente all’indipendenza delle ex-colonie, ad esempio, Williams fa notare che c’è una differenza fra i soggetti giunti in Europa o nelle Americhe immediatamente dopo l’indipendenza, per i quali la patria d’origine è il luogo fisico della partenza, e la generazione dei figli, nati nel paese ex-colonizzatore, che tuttavia continuano a non essere riconosciuti come interni al dove sono ora, e vogliono costruirsi identità che non siano né ripetizione dell’origine né adesione al modello del paese d'approdo: sotto questo punto di vista, la condizione dei soggetti diasporici ha delle affinità con quella dei soggetti abitatori delle frontiere, e la teoria e l’analisi dei diaspora studies dialoga con i Border studies.

Di queste problematiche trattano sia gli Studi culturali nati nella Gran Bretagna con l’intento di ridisegnare le nuove etnicità e riconfigurare i concetti di identità nazionale e culturale (Hall 1992), sia gli studi caraibici e angloamericani di pensatori, scrittori, etnografi che rileggono la storia dolorosa dell’esodo forzato degli africani riallacciandosi al progetto transnazionale e panafricano di Marcus Garvey o di W. E. B. Dubois (Gilroy 1993). Gilroy, nel suo The Black Atlantic, assume una posizione anti-essenzialistica e controbatte tanto il discorso suprematista dell’egemonia bianca protestante che all’africanologia alla base delle teorie di Molefi K. Asante (1989), il quale all’eurocentrismo risponde con l’afrocentrismo, rischiando, come fu per certa parte del pensiero del black power, di controbattere al razzismo bianco con teorie altrettanto razziste e fasciste di ipersimilarità razziale e assolutismo etnico. Ponendo in questione proprio l’idea di centro/centralità/centralismo/unitarietà/identità (una parola chiave nel testo è sameness, tradotta in italiana con medesimezza), e mostrando i flussi, gli incontri, le ibridazioni fra culture, Gilroy riparte dalla nozione di doppia coscienza di Dubois, ovvero dalla condizione esistenziale dei deportati che erano contemporaneamente dentro e fuori i diritti e i doveri della nazione che li faceva oggetti di schiavitù, focalizzando il legame mai risolto con un altro luogo che alimentava la resistenza e configurava l’altro luogo (il da dove vieni) come spazio di libertà e risorsa per la sopravvivenza. Intorno a questa condizione esistenziale e sociale, impregnata di sofferenza, si articola, secondo Gilroy, una diaspora nera, che nei suoi scritti prende la configurazione di Black Atlantic, termine che “si riferisce a un sistema di interazione e comunicazione storica, culturale, politica e linguistica che ebbe origine con la schiavitù stessa (…) la schiavitù non dovrebbe essere intesa come un fatto puramente economico: ebbe profonde conseguenze culturali in tutti i territori in cui fu presente. Nella sua evoluzione, la schiavitù del nuovo mondo mescolò gruppi diversi di persone in combinazioni complesse e imprevedibili” (Gilroy 1993, p.18).

Stuart Hall, nei suoi numerosissimi studi, ha insegnato a guardare al mondo caribico non come semplice diaspora dell’Africa, ma anche come diaspora dell’Europa, della Cina, dell’Asia: i Caraibi, nella loro complessità culturale, incarnano il concetto-condizione di diaspora, soprattutto ora che i caraibici si sono ri-diasporizzati ripartendo per altri luoghi (Chen 1996).

Gli studi sulla diaspora insegnano a guardare immagini e ascoltare musica nata dalla diaspora, come il blues e il jazz, o il ragge giamaicano come esempi pulsanti di pensiero, pratica ed estetica non nazionalistici (formazioni di opposizione, le chiama Gilroy), bensì transnazionalistici e creolizzati. Si tratta di produzioni estetiche che attraversano, come la diaspora, tutti i continenti, dal Nord al Sud, e riguardano paesi a lingua francese, spagnola e portoghese, ma anche turca e araba – si pensi alla diaspora curda – e mettono in scena l’irrequietezza e il nomadismo che in questi nostri tempi attraversa svariate comunità in cui la diaspora è indotta dalle spinte del neo-liberismo e neo-imperialismo di stampo occidentale ma anche da spinte nazionalistiche e tribali dell’Est come del Sud del mondo. Come ammonisce Gilroy, occorre d’altronde evitare che la diaspora, che si è avvalsa del concetto cliffordiano delle travelling cultures (culture in viaggio), diventi “un semplice sinonimo di movimento” (Gilroy 1993, p. 39), un concetto alla moda entro cui inscrivere le teorie del nomadismo occidentale, o peggio del turismo e consumismo culturale. Appello già lanciato  da Stuart Hall nel 1992, quando sostenne che c'è il rischio di romanticizzare la figura del viaggio, dell’ibridità e del movimento dando luogo a formazioni reazionarie e regressive: quel che qui è in ballo è il rapporto fra il processo d’indigenization e le dinamiche della globalizzazione e localizzazione. D’altronde, la modernità e il fascino del pensiero diasporico stanno nella traiettoria nuova che gli studi sulla diaspora, insieme ai Border studies indicano: a differenza di un attaccamento alle appartenenze, che rivendica un diritto alla ricompensa e al ritorno, implicito per esempio in una certa area del pensiero sionista ebraico più conservatore o, nel sionismo nero che postulava il back to Africa e richiedeva una terra per gli ex-schiavi o, anche recentemente, un risarcimento monetario per la schiavitù, la diaspora rappresenta “un’alternativa alla metafisica della razza, della nazione e della cultura territoriale delimitata (…) la diaspora è un concetto che disturba attivamente la meccanica storica e culturale dell'appartenenza” (Gilroy 1993, p. 36).

In questa prospettiva, un’ebrea approdata oltreoceano dalla diaspora russa, la scrittrice americana Grace Paley, esalta il rinnovamento della lingua inglese ad opera dei figli della diaspora coloniale in Gran Bretagna e dai nuovi emigrati negli Stati Uniti, affermando che “quanto più specifico sei, più diventi universale” e che le svariate lingue parlate da soggetti della diaspora ebraica sono bellezza e ricchezza, e ai puristi risponde “giù le mani dalla diaspora!” (Lynch, Portelli 1995, p. 50). In ambito letterario sono stati individuati come diasporici essenzialmente due corpi di scrittura: il primo riguarda i discendenti degli schiavi africani deportati nelle Indie occidentali, gli indiani, i cinesi e i portoghesi che hanno seguito la diaspora lavorativa in angoli dell’impero come le Indie occidentali, le isole Fiji e le Mauritius; il secondo riguarda gli stessi gruppi culturali che, per ragioni politiche o economiche o per motivi personali, dal subcontinente indiano, dall’Africa, dall’Asia e dalle Indie occidentali si reca(ro)no al centro dell’impero, in Gran Bretagna o in Nord America o in Australia (Ramraj 1996).

Come si intuisce, il progetto diasporico, quello post-coloniale e quello del border crossing s’intersecano, problematizzando le identità nazionali tanto all’interno del soggetto diasporico/post-coloniale/fronterizo che all’esterno, cioè nei soggetti nativi di un luogo e tuttavia esposti alle differenze; sottolineano dislocazioni spaziali (diaspora e frontiera) e temporali (diaspora e post-colonialismo). Insistendo sulla relazionalità e interazione fra  i soggetti, questi progetti indicano percorsi transnazionali e pratiche di costante rinegoziazione e riconfigurazione – processi che sono il fondamento e il senso degli studi culturali.



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