Il collettivo Subaltern Studies, formatosi all’inizio degli anni Ottanta in India, attorno all’Università di Delhi, costituisce una delle scuole fondamentali degli studi culturali sviluppatisi nel Sud-Est asiatico, insieme a quelle del Centre for the Study of Developing Societies (csds) e del Centre of Contemporary Studies (ccs). Con questi centri di studio, anch’essi facenti base a Delhi, il collettivo condivide alcuni interessi specifici, quali la riflessione critica sulla modernità, l’idea che la conoscenza è una forma di intervento politico, l’attenzione all’influenza di Gandhi come figura cruciale nella cultura indiana moderna, e il dibattito sull’uso della lingua inglese nell’India coloniale e postcoloniale, ma se ne distingue in quanto a orientamento teorico e metodologico. Il collettivo, infatti, riunito intorno allo storico ed economista Ranajit Guha, si pone il fine di ricostruire la storia del subcontinente indiano, dando ascolto e voce ai subalterni, che la storiografia dominante – quella di stampo eurocentrico dei colonizzatori britannici da un lato, e quella dell’élite nazionalista dall’altro – avevano messo a tacere. Secondo Guha e gli altri membri del gruppo originale – tra cui Partha Chatterjee, Gyanendra Pandey, Shahid Amin, David Arnold, David Hardiman e Dipesh Chakrabarty, a cui presto se ne aggiungeranno altri, quali Gayatri C. Spivak e Bernard Cohn – tutti i resoconti della storia indiana risultano incompleti e parziali, perché non trattano del ruolo cruciale e cospicuo svolto nella formazione della nazione dalle masse dei subalterni. Guha illustra chiaramente la situazione nel saggio On Some Aspects of the Historiography of Colonial India, sorta di manifesto programmatico che, nel 1982, apre il primo volume della collana Subaltern Studies. Writings on South Asian History and Society, pubblicazione ufficiale dell’omonimo collettivo di Delhi, oggi arrivata all’undicesimo volume. Il termine subalterno, così come molti altri utilizzati dal gruppo di Delhi, è preso in prestito dagli scritti dello storico e politico marxista italiano Antonio Gramsci, che con esso si riferiva ai gruppi socialmente subordinati al dominio delle classi egemoni, nella fattispecie i proletari, i quali, per definizione, non erano né uniti né organizzati e, di conseguenza, si trovavano svantaggiati nel tentativo di costruire una coscienza di classe contrapponibile a quella di chi deteneva il potere. Un cinquantennio più tardi, gli studiosi della subalternità hanno re-interpretato il termine gramsciano, inserendolo nel contesto sud-asiatico, in particolare nell’ambito indiano, dove l’intreccio di dominio e resistenza, violenza e insubordinazione appare assai complesso persino nel tentativo di ricostruzione storica dell’indipendenza nazionale. Da un lato, infatti, i neocolonialisti sostengono che l’indipendenza sia stata raggiunta grazie agli stimoli sollecitati dall’imperialismo britannico, mentre d’altro lato la storiografia nazionalista ritiene che l’impresa della decolonizzazione sia stata condotta quasi esclusivamente da un gruppo ristretto di politici, quali Gandhi, Nehru e Jinna: entrambe le ipotesi, fanno notare Guha e compagni, mancano di considerare il pur importante ruolo svolto dai soggetti subalterni nella formazione della nazione postcoloniale. Riformulando il concetto di subalterno, gli studiosi del collettivo ne hanno esteso il campo semantico, riferendolo alle masse dei proprî connazionali che, nonostante la schiacciante maggioranza numerica e i tentativi di ribellione, erano stati oppressi, e dunque la loro storia era stata soppressa, dai gruppi dominanti, in virtù delle differenze di casta, classe, genere, appartenenza etnica, età, e così via. Per Guha, la cui formazione politica è stata condizionata sia dal radicalismo rurale nell’India degli anni Sessanta sia dagli sviluppi contemporanei della rivoluzione cinese, sono prima di tutto i contadini ad assurgere a paradigma della condizione subalterna. Come spiega in The Prose of Counter-Insurgency, articolo che apre il secondo volume della collana Subaltern Studies (di cui fino al 1989, cioè fino alla pubblicazione del sesto volume, egli rimane unico curatore), la subalternità dei contadini nella società semi-feudale delle campagne indiane durante il periodo coloniale si manifestava in un sistema di segni che riguardavano ogni aspetto della vita quotidiana, dal linguaggio all’abbigliamento. Ribellarsi dunque a tale sistema significava sovvertire l’universo simbolico nel quale, il contadino aveva imparato a operare, codificandone e decodificandone i segni, ed entro cui trovava la propria collocazione. È ovvio dunque, sostiene Guha, che ribellarsi a tale mondo, differentemente da ciò che racconta la storiografia ufficiale, non poteva essere un mero riflesso automatico alle misere condizioni di vita, bensì doveva essere un’operazione motivata e politicamente consapevole, sia pure discontinua, da parte delle popolazioni rurali. Nell’atto della rivolta il contadino si libera coscientemente della propria subalternità, iscrivendosi come soggetto all’interno del discorso storico nazionale. Il collettivo riunito intorno a Guha si propone dunque di colmare le lacune del discorso storico dominante, di riempirne le omissioni e le ellissi. La difficoltà sta nel trovare la maniera di accedere il più direttamente possibile alla voce dei subalterni. Si pone un doppio problema: da un lato, bisogna prima rinvenire le fonti alternative, in precedenza trascurate, quali quelle dei racconti orali, della memoria popolare, dei documenti sepolti in archivi mai consultati, e poi trovare gli strumenti atti a interpretarli, nonostante si presentino ora come frammentarie e discontinue, ora come ripetitive e non-lineari; d’altro lato, bisogna altresì intervenire all’interno del discorso storico dominante, rileggendone le fonti ufficiali da un punto di vista che ne sveli il substrato neocoloniale e nazionalista, tenendo cioè conto del fatto che esse sono prodotte da chi ha contribuito a rendere i subalterni tali; è dunque necessario che anche queste ultime siano passate al vaglio di una critica testuale precisa e rigorosa – che Guha, nel suo già citato e fondamentale saggio The Prose of Counter-Insurgency, rinviene negli sviluppi della linguistica strutturalista, in particolare nei primi lavori di Roland Barthes, sulla scia del quale riesce a individuare gli indizi della narrazione subalterna, indispensabili termini di correlazione tra le funzioni che fanno il discorso dominante. Sorge tuttavia un ulteriore problema, che è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi della subalternità: ci si chiede, cioè, se una storia con tali difficoltà di reperimento e interpretazione delle fonti possa costituire una registrazione autorevole del passato, ovvero se le classi dominanti non abbiano infine avuto davvero la meglio nel cancellare le tracce del passaggio delle masse e degli individui subalterni, impedendone la scrittura nella, e della, storia. Se così fosse, la costruzione di un’identità subalterna risulterebbe una velleità oggettivizzante e fine a se stessa da parte dello storico, piuttosto che una rivendicazione di soggettivizzazione del subalterno. In altre parole, ci si chiede se il subalterno possa effettivamente parlare, raccontare la propria storia, e costituirsi quindi come soggetto. Il problema è tuttora aperto, come dimostrano già i titoli di alcuni dei saggi più noti su questo aspetto della subalternità: primo fra tutti quello di Spivak, Can the Subaltern Speak? (1988), in cui la studiosa esamina il caso estremo del rituale del sati, secondo il quale la vedova è costretta dalla società patriarcale a immolarsi sulla pira del marito defunto, diventando così il soggetto subalterno zittito per antonomasia; a esso seguono, tra gli altri, Postcoloniality and the Artifice of History: Who Speaks for “Indian” Pasts? (1992), di Chakrabarty; e When Will the Subaltern Speak? (1993), di Alam Shamsul. A prescindere dalle difficoltà teoriche e metodologiche che comporta, l’alternativa subalterna propone ciò che Said, nella sua nota introduzione alla prima raccolta antologica di scritti subalterni curata da Ranajit e Spivak (Selected Subaltern Studies, 1988), definisce una conoscenza integrativa, in grado di colmare i vuoti della storia indiana coloniale e postcoloniale. Gramsci e Said costituiscono in qualche modo i punti di partenza del discorso subalterno formulato dal collettivo di Delhi – il primo in quanto iniziatore di una direttrice del marxismo occidentale a cui gli studiosi indiani fanno continuo riferimento, il secondo, che pure si rifà al pensiero gramsciano, in quanto caposcuola del discorso postcoloniale orientalista (cfr. E. Said, Orientalism, 1978), che Guha e compagni riprendono ed esplorano ulteriormente, diventando così una tra le voci più forti e polifoniche degli studi postcoloniali contemporanei. Tuttavia, molteplici sono i punti di riferimento dei diversi membri del collettivo, che si rifanno a storici quali Edward Palmer Thompson, Eric Hobsbawm e Carlo Ginzburg; essi si confrontano con lo strutturalismo, il post-strutturalismo e il decostruzionismo di, rispettivamente, Roland Barthes, Michel Foucault e Jacques Derrida; mentre via via, intrecciando in maniera originale gli assunti dei pensatori che li precedono, si aprono a nuove tendenze e orientamenti di pensiero – il femminismo, gli studi di genere, quelli legali – contribuendo così a realizzare in maniera intertestuale e interculturale il programma della conoscenza integrativa di cui sopra, che è stato sin dall’inizio il principio motore del progetto della subalternità. Nonostante il programma del collettivo di Delhi sia sempre rimasto coerente e rigoroso negli assunti di fondo, svariati sono stati gli sviluppi tematici e metodologici. Se ne può tracciare la vicenda, ancora in fieri, nonché la sua espansione in ambito interdisciplinare e in contesto internazionale, seguendo le tappe delle sue pubblicazioni. Mentre infatti i primi tre volumi di Subaltern Studies, pubblicati rispettivamente nel 1982, 1983 e 1984, si occupano di ricostruire la storia delle varie comunità subalterne, siano esse quelle dei contadini in rivolta o quelle dei lavoratori di iuta in città, ponendo l’enfasi sul loro intervento attivo nella formazione della nazione, già con il quarto volume, pubblicato nel 1985, il collettivo compie una prima svolta verso la direzione degli studi culturali, grazie all’apporto dell’antropologo Bernard Cohn, presente per la prima volta nella collana con l’articolo The Command of Language and the Language of Command; e grazie, soprattutto, al contributo della Spivak, la quale interviene per la prima volta nel forum col suo saggio Subaltern Studies. Deconstructing Historiography, che risente fortemente delle idee del filosofo francese Derrida, del quale la studiosa aveva tradotto in inglese De la grammatologie. Con la Spivak, e la sua critica all’essenzializzazione del soggetto subalterno – con cui rifiuta la presunta stabilità di ogni categoria, concetto basato, a suo parere, sull’artificiosità delle opposizioni binarie del pensiero tradizionale occidentale, facendo perno invece sulla violenza epistemica come forma di conoscenza, che risulterebbe dallo scontro fra il colonialismo e i soggetti che questo produce – il collettivo inizia a porsi nuovi problemi di rappresentabilità e rappresentazione, la cui summa è data dal controverso, già citato saggio Can the Subaltern Speak?, nel quale la studiosa fornisce una risposta sostanzialmente negativa alla domanda provocatoria del titolo. Vengono inoltre introdotte dalla Spivak la questione del gender e, in particolare, quella femminile, che saranno ulteriormente esaminate da altre studiose, quali Susie Tharu e Julie Stephens, e che diventeranno centrali nel discorso della subalternità. Nella seconda metà degli anni Ottanta, la teoria della subalternità raggiunge il centro dell’impero. Nel 1986, Rosalind O’Hanlon ne parla in un seminario sulla cultura popolare tenutosi a Cambridge, mentre nel 1988 la stessa studiosa firma il primo articolo sugli studi subalterni pubblicato in Modern Asian Studies, prestigiosa rivista della cosiddetta Scuola di Cambridge. Alcuni degli argomenti dei saggi contenuti nel quinto volume di Subaltern Studies, dato alle stampe nel 1987, rispecchiano la nuova apertura intrapresa dal progetto della subalternità, in quanto si occupano di vedere come il subalterno è rappresentato non soltanto nelle narrazioni storiche, bensì anche in letteratura e nei testi giuridici. Quando, nel 1988, viene pubblicata la prima selezione di saggi del collettivo di Delhi, dal titolo Selected Subaltern Studies, il progetto della subalternità assume visibilità a livello globale, aprendosi nel frattempo a vari ambiti disciplinari e nazionali, come testimoniano i volumi successivi: nel sesto e nel settimo, per esempio, pubblicati rispettivamente nel 1989 e nel 1992, alcuni studiosi affrontano l’intersezione della questione religiosa col mondo della subalternità, mentre il nono volume, del 1996, si conclude con uno studio sull’effetto subalterno in Irlanda (l’ottavo, invece, pubblicato nel 1994 raccoglie una serie di articoli in onore di Guha). Ancora, nel decimo volume, pubblicato nel 1999, accanto ai saggi storici, si discute di realismo magico e di cultura visiva popolare, mentre nell’undicesimo, del 2000, viene presentata la situazione delle donne palestinesi. Nel corso degli anni Novanta, dunque, il progetto della subalternità compie una seconda svolta, assumendo dimensioni internazionali: nel 1993, viene fondato un collettivo latino-americano di studi subalterni, mentre nel 1994 la prestigiosa American History Review dedica un numero monografico al progetto subalterno internazionale. Quando, nel 1997, Guha cura il volume A Subaltern Studies Reader. 1986-1995 – cui seguirà un’ulteriore antologia, Reading Subaltern Studies, a cura di David Ludden, nel 2001 – molti dei saggi dei membri del collettivo sono già ampiamente antologizzati, e il paradigma della subalternità è ormai talmente affermato su scala mondiale che nell’undicesimo e a oggi ultimo volume della serie, la Spivak sente di dovere definire il concetto di nuovo subalterno, nel saggio omonimo che chiude il libro, rintracciandolo emblematicamente nelle donne proletarizzate del Sud del mondo. Il dibattito sugli studi subalterni ferve ormai da più di due decenni, facendosi sempre più vivace e accogliendo tra le sue fila un numero sempre maggiore di sostenitori, ma anche di detrattori, che ne rimproverano l’astrusità e la provenienza occidentale del linguaggio e dell’impostazione teorica, di frequente lamentando anche il fatto che gli studiosi che fanno capo al collettivo spesso vivono in diaspora. A prescindere dalla polemiche che accompagnano il dibattito e dalle diverse posizioni che lo contraddistinguono, chiunque frequenti studi culturali e postcoloniali, filosofia e critica politica di tradizione marxista, storia e letteratura contemporanee, sociologia e studi d’area del sud-est asiatico quanto di altre regioni del mondo, difficilmente potrà fare a meno di commisurarsi con il lavoro degli studiosi della subalternità. |