Il volume propone, nella prima parte, una teoria della descrizione delle opere d’arte, studiandone le forme e i generi e attingendo a una tradizione che va dall’antica Greciaai nostri giorni. Nella seconda parte, si studiano alcune immagini (dipinti, sculture, pitture vascolari, architetture) che sono il sedimento della cultura visuale di una determinata epoca storica, al fine di ricostruire le caratteristiche comuni dell’immaginario letterario e artistico tra Settecento e Novecento.
Storia, miracoli e misfatti dell’ekphrasis, la tecnica di traduzione delle immagini in parole che da Filostrato a Foucault, passando per Winkelmann e il suo Laocoonte, testo fondatore dell’ékphrasis moderna, è il modo in cui il verbale tenta di contenere e dominare il visuale, di cui ha il terrore. Non si parla di fotografie, ma la lettura è propedeutica ed educativa per chi crede ancora che le foto, come qualunque altra immagine prodotta dall’uomo, “parlino da sole” (Michele Smargiassi)
Recensione di Antonella Anedda
in "Alfabeta2", novembre 2012, Numero 24 - Anno III
Forse uno dei modi di leggere il libro di Michele Cometa è guardarlo nella sua concretezza, prendere letteralmente atto del suo peso. Intorno all’idea che l’ékfrasis, la descrizione di un’opera d’arte, «lungi dall’essere un orpello decorativo» sia tanto profondamente coinvolta nei testi letterari da non
poter essere trascurata da nessuna «futura» teoria, Cometa costruisce un vero e proprio oggetto, fitto di citazioni addirittura stordenti ma capace di sterrare autentiche radure di pensiero.
A partire dalle Immagini di Filostrato – che presupponevano la presenza di giovani interlocutori e avevano dunque una funzione didattica – l’intrinseca tendenza dell’ékfrasis è quella di superare se stessa. Guardare un quadro e descriverlo significa parlare per aggiunte e sottrazioni, trasformando, traducendo e spesso suggerendo. Ogni descrizione ha mille fessure da cui possono entrare (e uscire) il non-detto e, se non il non-visto, almeno il non-visto del tutto. Scrivere di un’immagine, forse, comporta anche una sovra-scrittura, una sovrapposizione che mette a nudo lo sguardo di chi scrive. Una delle descrizioni più affascinanti è quella della Corsia dell’ospedale di Arles di Van Gogh da parte del drammaturgo svizzero Michel Mettler: e Cometa (citando Kafka e Thomas Bernhard) ci mostra come quel mondo ospedaliero parli del nostro mondo moderno, sia anzi il nostro mondo moderno. Una simile riflessione tornerà nel capitolo Lo sguardo sull’assente, a proposito della follia di Goya letta da Foucault. Nume indiscusso del «pictorial turn» contemporaneo – ma anche insuperato maestro ekfrastico, come testimonia il celebre testo su Las Meniñas di Velasquez – Foucault lascia rintoccare nella sua descrizione delle opere di Goya il suono delle parole di Artaud e delle immagini di Van Gogh.
Difficile in questo poco spazio rendere conto dei tanti altri sentieri del libro, da Hopper-Mark Strand a Vermeer-Gustav Herling, cui si potrebbero aggiungere Tiziano-Zbignew Herbert (il cui A barbariain in the garden è uno dei capolavori ekfrastici del Novecento) o Raffaello-Vassilij Grossmann o Joseph Cornell-Charles Simic.
Nella pagina finale del primo capitolo troviamo le istruzioni per l’uso del libro: il quale si soffermerà su ékfrasis così cruciali da trascinare con sé «questioni che vanno ben al di là della retorica». È il caso del Lacoonte, protagonista del capitolo Vedere il dolore: nel quale Cometa ci mostra lo statuto agonico tra parola e immagine e in qualche modo la loro difficoltà di «misura» nei confronti del dolore. È possibile descrivere un grido?, rendere la disperazione di un padre che muore perdendo i due figli? E come rendere la pena di un corpo morso dal veleno di un serpente? Una simile «materialità» attraversa anche un altro importante testo del libro: La Madonna del pensiero, dedicato alla Madonna Sistina di Raffaello. La definizione di «icona della modernità» potrebbe sorprendere, ma i percorsi di sguardi tracciati da Dostoevskij a Heidegger, attraverso una mirabile pagina di Ernst Bloch, ci rivelano quanto il modo di trattare lo spazio dell’opera da parte di Raffaello contempli l’antimimetismo di Cézanne e anticipi addirittura il Cubismo. Cometa è consapevole non solo del compito infinito dell’ékfrasis, ma anche del suo infinito enigma: «l’angelo dell’ekfrasis non apre solo la porta del Paradiso ma anche la chiude». Chi descrive vede non solo la bellezza, ma il dolore. Se l’ékfrasis può animare e può bloccare, se può dare istruzioni al quadro a venire (come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac) e posare lo sguardo sull’assenza, essa contiene in sé, pure, il dono avvelenato della non-sottrazione. Chi guarda e descrive non può fuggire da ciò che ha visto se non – come il protagonista di Antichi maestri di Thomas Bernhard – estinguendo parola e sguardo nella musica. Descrivere ci ferisce anche nostro malgrado: lo sguardo è il coltello che colpisce per primo chi lo usa.
ANTONELLA ANEDDA