The death of cyberflaneur
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L’altro giorno, mentre rovistavo in una pila di articoli più o meno vecchi sul futuro di internet, il mio occhio si è posato su un oscuro saggetto del 1998 pubblicato, tra tutti i posti possibili, su un sito che si chiamava Ceramica Oggi. Celebrava l’ascesa di quello che definiva il “ciberflâneur”, l’utente che vaga per la rete in cerca di nuove scoperte. Il luminoso futuro digitale, all’insegna del gioco, dell’intrigo e della casualità, attendeva questo misterioso personaggio del mondo virtuale. Una simile visione del domani era inevitabile, in un’epoca in cui si scriveva che “internet e l’autostrada dell’informazione sono diventate ciò che la città e la strada erano per il flâneur di un tempo”.

Incuriosito, ho quindi deciso di scoprire che fine ha fatto il ciberflâneur. Pur imbattendomi in altri commentatori dell’epoca convinti che la flânerie online avrebbe prosperato, il triste stato in cui si trova internet oggi lascia supporre che si sbagliassero di grosso. Oggi i ciberflâneur sono una rarità, e la ciberflânerie è in netto contrasto con il mondo dei social media. Cosa è andato storto? Dobbiamo preoccuparci?

Ricostruire la storia della flânerie potrebbe essere un buon punto di partenza per provare a rispondere a queste domande. Grazie al poeta francese Charles Baudelaire e al critico tedesco Walter Benjamin, che consideravano il flâneur un emblema della modernità, questa figura (prevalentemente maschile) oggi è saldamente associata alla Parigi dell’ottocento. Il flâneur vagava tranquillo per le strade della città, e soprattutto per le sue gallerie – quelle eleganti, vivaci e frenetiche file di esercizi commerciali coperte da tetti di vetro – praticando quella che Honoré de Balzac chiamava “la gastronomia dell’occhio”.

Pur non nascondendo intenzionalmente la sua identità, il flâneur preferiva gironzolare in incognito: “L’arte che padroneggia è quella di vedere senza essere colto a guardare”, osservava qualche tempo fa il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Il flâneur non era asociale – la sua attività poteva svolgersi al meglio soltanto in mezzo alla folla – ma evitava di mescolarsi agli altri, preferendo assaporare in solitudine. E per farlo aveva tutto il tempo del mondo: si racconta che certi flâneur portassero a spasso delle tartarughe.
Il flâneur vagabondava per le gallerie commerciali, ma non cedeva alle tentazioni del consumismo: la galleria era anzitutto la via d’accesso a una ricca esperienza sensoriale, e solo in seguito è diventata un tempio del consumo. Il suo obiettivo era osservare, immergersi nella folla, assorbirne i rumori, il caos, l’eterogeneità e il cosmopolitismo. Talvolta raccontava quel che vedeva – esplorando la propria intimità e il mondo circostante – in forma di brevi saggi che venivano pubblicati sui quotidiani.

È dunque facile capire come mai, agli albori del web, il concetto di ciberflânerie potesse essere così attraente. L’idea di esplorare la rete come un territorio vergine, ancora non colonizzato da governi e multinazionali, era romantica. Un romanticismo che si rifletteva perfino nei nomi dei primi browser: Internet Explorer, Netscape Navigator.

Le vere gallerie del periodo erano comunità online come GeoCities e Tripod, dove si trovavano le cose più bizzarre e sconosciute, e senza gerarchie che le classificassero in base alla popolarità o al valore commerciale. All’epoca, eBay era più curioso di molti mercatini delle pulci, e girovagare per le sue bancarelle virtuali era infinitamente più piacevole di qualsiasi acquisto. Per un breve istante, nella seconda metà degli anni novanta, sembrò davvero che internet potesse innescare una rinascita della flânerie.
Ma chiunque abbia accarezzato il sogno di internet come rifugio di bohémien, edonisti ed eccentrici, probabilmente non conosceva le ragioni che portarono alla scomparsa del flâneur originale.

Nella seconda metà dell’ottocento, Parigi conobbe un mutamento rapido e profondo. Particolarmente rilevanti furono le riforme architettoniche e urbanistiche portate avanti dal barone Haussmann durante il regno di Napoleone III: la demolizione delle viuzze d’epoca medievale, la numerazione degli edifici a scopi amministrativi, la creazione di grandi viali aperti e “trasparenti” (costruiti in parte per migliorare le condizioni igieniche e in parte per ostacolare le barricate rivoluzionarie), il diffondersi dell’illuminazione stradale a gas e il crescente interesse per la vita all’aria aperta trasformarono la città profondamente.

Anche la tecnologia e i mutamenti sociali ebbero il loro peso. L’avvento del traffico stradale rese rischiose le passeggiate contemplative. Nel giro di poco tempo, le gallerie furono sostituite da più ampi e funzionali grandi magazzini. Questa razionalizzazione della vita urbana spinse i flâneur a rinchiudersi, costringendo alcuni di loro a una sorta di flânerie interiore, che raggiunse il suo culmine nell’esilio autoimposto di Marcel Proust nella sua camera rivestita di sughero (che era, ironia della sorte, proprio in boulevard Hauss-mann).

Qualcosa di simile si è verificato con internet. Superata la sua originaria identità ludica, oggi non è più un posto adatto alle passeggiate: è un posto dove si va a sbrigare delle faccende. Quasi più nessuno, ormai, naviga davvero in rete. Il successo del cosiddetto “paradigma dell’applicazione”, in base al quale apposite applicazioni per telefoni e tablet ci consentono di fare ciò che desideriamo senza neppure dover aprire il browser o visitare il resto della rete, ha reso la ciberflânerie meno verosimile. E il fatto che oggi una parte così consistente dell’attività online graviti intorno agli acquisti – di regali virtuali, animaletti virtuali, regali virtuali per animaletti virtuali – non aiuta affatto. Farsi un giro su Groupon è molto meno divertente che farselo in una galleria commerciale, virtuale o reale che sia.

Ed è cambiato anche il ritmo a cui si muove la rete. Dieci anni fa, un concetto come quello di “web in tempo reale”, dove ogni nostro tweet e aggiornamento di status viene istantaneamente indicizzato, aggiornato e commentato, era inimmaginabile. Oggi è la parola d’ordine della Silicon valley. Questo non deve sorprendere: la gente ama la velocità e l’efficienza. Ma il lento caricarsi delle pagine web di un tempo, accompagnato dal bizzarro crepitio del modem, possedeva una sua poesia, e apriva nuovi spazi al gioco e all’interpretazione.

Ogni tanto, la lentezza poteva perfino ricordarci che ci trovavamo di fronte a un computer. Ma ormai quella tartaruga è solo un ricordo.

Nel frattempo Google, con il suo tentativo di organizzare tutto lo scibile mondiale, sta rendendo sempre più superfluo visitare singoli siti internet, un po’ come svariate generazioni prima i cataloghi per corrispondenza resero superfluo recarsi fisicamente nei negozi. L’ultima grande ambizione di Google è quella di rispondere alle nostre domande – sul tempo, sul cambio delle valute, sulla partita di ieri – autonomamente, senza che l’utente debba visitare alcun altro sito. Scrivi una domanda nella homepage di Google, e la risposta appare in cima alla lista dei risultati.

Che simili scorciatoie danneggino o no la concorrenza nel settore della ricerca online è irrilevante: chiunque immagini la ricerca di informazioni in termini puramente strumentali, trattando internet come poco più di una gigantesca macchina delle risposte, difficilmente è destinato a costruire spazi digitali propizi alla ciberflânerie.

Ma se internet ha un suo barone Haussmann, quello è Facebook. Tutto ciò che rende la ciberflânerie possibile – solitudine e individualità, anonimato e opacità, mistero e ambivalenza, curiosità e rischio – è letteralmente preso d’assalto da questa azienda. Che non è un’azienda qualunque: con i suoi 845 milioni di utenti attivi sparsi per il mondo, qualunque direzione prenda Facebook sarà probabilmente la direzione che prenderà internet.

È facile addossare tutte le colpe al modello imprenditoriale di Facebook (in cui la perdita dell’anonimato in rete consente maggiori ricavi pubblicitari), ma il problema ha radici molto più profonde. Quelli di Facebook sembrano convinti che ogni elemento di imprevedibilità su cui si basa la flânerie debba sparire. “Vogliamo che tutto diventi sociale”, ha dichiarato il direttore operativo di Facebook, Sheryl Sandberg. A spiegare cosa significhi in pratica è stato il suo capo Mark Zuckerberg. “Uno preferisce andare al cinema da solo o con i suoi amici?”, ha chiesto, per poi immediatamente rispondersi da solo: “Preferisce andarci con i suoi amici”.

Le implicazioni sono evidenti: Facebook vuole costruire una rete dove guardare film, ascoltare musica, leggere libri e perfino navigare online siano attività svolte non soltanto in modo aperto, ma anche sociale e collaborativo. Facendo leva su lungimiranti partnership con aziende come Spotify e Netflix, Facebook creerà potenti ma occulti incentivi per spingere gli utenti ad abbracciare entusiasti la tirannia della “socialità”, al punto che svolgere queste attività per conto proprio potrebbe diventare impossibile.

Ora, se il signor Zuckerberg è davvero convinto delle sue affermazioni a proposito del cinema, ci sarebbe una lunga lista di film che vorrei sottoporre ai suoi amici. Perché non portarli a vedere Sátántangó, sette ore di pellicola sperimentale in bianco e nero del regista ungherese Béla Tarr? Be’, perché facendo un sondaggio tra i suoi amici, o in un qualunque gruppo di persone sufficientemente ampio, Sátántangó risulterebbe pressoché sempre sconfitto da qualcosa di più commerciale, per esempio War horse. Forse non sarebbe il titolo preferito da tutti, ma non offenderebbe nessuno. Ecco come funziona la tirannia della socialità.

E poi è ovvio che consumare arte da soli sia qualitativamente diverso dal consumarla socialmente. Perché tanta paura della solitudine? È difficile immaginare i flâneur parigini aggirarsi per le strade in branchi, come se dovessero presentarsi a un casting per il seguito di Una notte da leoni. Per Zuckerberg, invece, “essere connessi a tutte queste persone è più bello. Rende la vita più ricca”.

È sull’idea che l’esperienza individuale sia in qualche modo inferiore a quella collettiva che si basa il cosiddetto frictionless sharing, l’approccio alla condivisione fluido, senza attrito, sposato di recente da Facebook. L’idea è che, d’ora in avanti, dovremo preoccuparci solo di ciò che non vogliamo condividere; tutto il resto sarà condiviso in modo automatico. A tale scopo, Facebook sta incoraggiando i suoi partner a progettare applicazioni che condividano automaticamente tutto ciò che facciamo: gli articoli che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i video che guardiamo. Va da sé che la condivisione senza attrito rende anche più facile per Facebook venderci agli inserzionisti, e per gli inserzionisti vendere a noi le loro merci.

Potrebbe anche valerne la pena, se la condivisione senza attrito arricchisse la nostra esperienza online. In fin dei conti, anche i flâneur dell’ottocento, nelle loro peregrinazioni in giro per la città, finivano per confrontarsi con manifesti e cartelloni pubblicitari. Purtroppo, però, condividere senza attrito sarebbe come creare poesia in automatico, con risultati spesso intollerabili. Un conto è trovare interessante un articolo e decidere di condividerlo con gli amici. Un altro è inondare gli amici con tutto quello che passa per il proprio computer, nella speranza che in questo fiume loro riescano a pescare qualcosa di interessante.

Peggio ancora, quando questo sistema di condivisione automatica diventerà completamente operativo, probabilmente leggeremo le notizie solo su Facebook, senza mai varcare i suoi confini per visitare il resto del web. Molte testate giornalistiche, tra cui il Guardian e il Washington Post, hanno già delle applicazioni Face-book che consentono agli utenti di leggere gli articoli senza neppure andare sui loro siti. Come il blogger Robert Scoble spiegava in un suo recente post, “il mondo nuovo è quello in cui uno si limita ad aprire Face-book, e tutto ciò che gli interessa scorre sullo schermo”. È questo atteggiamento che sta uccidendo la ciberflânerie: il punto, nei vagabondaggi del flâneur, è proprio non sapere cosa gli interessi. Per dirla con le parole dello scrittore tedesco Franz Hessel, tra le altre cose collaboratore di Walter Benjamin, “per dedicarsi alla flânerie occorre non avere in mente nulla di troppo definito”.

Secondo Benjamin, l’ultima incarnazione del flâneur è stata la triste figura dell’uomo-sandwich, quello che andava in giro indossando cartelli pubblicitari. In un certo senso, oggi ci siamo trasformati tutti in tanti uomini-sandwich, che camminano per le ciberstrade di Facebook portando in giro pubblicità invisibili appese alle nostre personalità virtuali. L’unica differenza è che la natura digitale dell’informazione ci permette di consumare allegramente canzoni, film e libri, facendogli intanto la pubblicità senza rendercene conto.

Evgeny Morozov è un giornalista e studioso di nuovi mezzi d’informazione nato in Bielorussia. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’ingenuità della rete


 Traduzione di Matteo Colombo.  

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recensione a "l'ingenuità della rete"